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“Questa non è un’edizione limitata, mamma. Questa è un’origin story, lo è sempre stata”.
Unbreakable.
Split.
Glass.
Tre singole parole, tre supereroi.
Che fossero in qualche modo intrecciati lo scoprimmo, con enorme sorpresa, al termine di Split, film che servì a Shyamalan per introdurre in questo suo “universo” alternativo le innumerevoli personalità incarnate da un James McAvoy letteralmente mostruoso (e non solo quando, finalmente, la Bestia prende il sopravvento sul resto dell’Orda).
Bastò la fugace apparizione finale di David Dunn (Bruce Willis) per intuire che qualcuno, un domani, si sarebbe messo sulle sue tracce per tentare di fermarlo.
Ma era altrettanto inevitabile che sullo sfondo di questo irrimandabile incontro, quello tra due personaggi con caratteristiche sovrumane, non spuntasse la sagoma della “mente suprema”, quella dell’uomo di vetro (“ma chiamami Mr. Glass”), Elijah Price (Samuel L. Jackson)...
Unbreakable.
Split.
Glass.
Indistruttibile (infrangibile), Diviso (rotto)... Vetro.
Si ritrovano tutti e tre insieme, inutile svelare come (e perché), in un istituto psichiatrico giudiziario, sotto il controllo dell’accogliente dottoressa Staple (Sarah Paulson), decisa a curare le loro “manie di grandezza” attraverso un’opera di convincimento scientifico che dimostri l’impossibilità dell’esistenza dei supereroi.
Costantemente sedato uno (Mr. Glass), minacciato da un enorme serbatoio d’acqua un altro (Dunn) e controllato attraverso potenti esplosioni di luce il terzo (Kevin Wendell Crumb), così da evitare il manifestarsi della Bestia, finiranno ognuno per comprendere le rispettive “origini”. Ma non solo.
Utilizzando footage dei due film precedenti (uno realizzato nel 2000, l’altro nel 2016), Shyamalan porta a conclusione (?) la sua riflessione sul concetto filosofico di fumetti e supereroi: lo fa naturalmente cercando di mantenere vive le atmosfere di profondità e scavo psicologico, quasi a volersi affrancare dalla spettacolarità banalmente prevedibile della maggior parte dei comic-movie.
Se in Unbreakable assistevamo al confronto tra un personaggio, Dunn, che scopriva in modo riluttante di avere dei poteri, e un altro, Price, che per affermare la propria convinzione sull’esistenza dei supereroi non si faceva scrupolo di architettare veri e propri piani terroristici, in Split deflagrava l’apparentemente incontrollabile schizofrenia di Crumb, serial killer capace di trasformarsi in 23 personalità differenti: Glass è la definitiva ricomposizione dei vari frammenti presentati e sfracellati nei due film precedenti, l’incontro tra la megalomania del menomato e l’esplosività animalesca della Bestia, l’alleanza tra i villain che solamente l’eroe solitario, il predestinato, un tempo guardia di sicurezza allo stadio di Philadelphia, ora titolare di un negozio di strumenti di sorveglianza, può provare a contrastare.
Ma questa è semplicemente la superficie del vetro: operando progressivi ribaltamenti di prospettiva, senza dimenticare la funzione chiave di tre personaggi provenienti ciascuno dai due film precedenti (da Unbreakable la madre di Elijah e il figlio di Dunn, interpretati oggi come allora da Charlayne Woodard e Spencer Treat Clark, da Split l’adolescente Casey Cooke, l’unica tra le rapite che Crumb risparmiò, interpretata da Anya Taylor-Joy), Shyamalan sparge agnizioni provenienti dal passato (su tutte quella relativa alla scomparsa del padre di Crumb) e colpi di scena “postumi”, promette apocalittici showdown ma sorprende piuttosto in levare, creando le basi per un crescendo emozionale che conduce ad un finale indimenticabile.