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Nicholas Hoult in Giurato Numero 2
C’è un’inquadratura, verso il finale di Giurato Numero 2, che, senza preavviso, ci ricorda un altro commiato eastwoodiano di quasi trent’anni fa. È quello di Mezzanotte nel giardino del bene e del male, dove la statua della Bird Girl sovrastava il cimitero di Bonaventure a Savannah, in Georgia, testimone di una cinica parabola su quanto la giustizia non possa essere sempre all’altezza della verità e viceversa.
Qui, nella quarantaduesima regia di Eastwood, siamo sempre in Georgia e c’è un’altra statua che, maestosa e ieratica, osserva gli eventi, dall’incipit esplicativo all’epilogo simbolico: è la Giustizia, appunto, nella sua rappresentazione più tipica, la Dea quindi una donna. Proprio di lei, della giustizia e di quanto possa “reggere” la verità, si parla, in un dialogo magnifico che annuncia l’epilogo di Giurato Numero 2 e contiene l’etica, l’urgenza, lo sguardo di un autore, Clint Eastwood, e di un film che ne rappresenta ineluttabilmente il compendio (su sceneggiatura di Jonathan A. Abrams).
È la parabola di un uomo tormentato (Nicholas Hoult clamoroso: recita con occhi azzurri sempre più liquidi e sostiene primi piani quasi insostenibili), chiamato all’appuntamento della vita (la moglie sta completando una gravidanza a rischio), messo di fronte al bivio (che fare quando sai che si sta per commettere un’ingiustizia ma non puoi opporti?), perseguitato da demoni (l’alcolismo superato grazie all’amore e sfiorato al cospetto di un dolore), lacerato dalle conseguenze delle proprie azioni.
Clint Eastwood ha novantaquattro anni: non si fa suggestionare dai true crime come la giurata numero 13 (“La prima regola è che il sospettato principale è sempre il marito; la seconda regola è che spesso il sospettato principale non è il colpevole”), sa che dal passato non si sfugge (come il giurato che non può prescindere dal privato), che a volte le incombenze familiari non permettono di riflettere sulla complessità (la giurata che deve tornare a casa dai figli), che indagare è la vocazione di chi coltiva l’ossessione del vederci chiaro (J.K. Simmons, l’esperienza incarnata, capisce tutto, forse, e si mette da parte quando le cose si allineano e rischiano di sovvertire l’ordine).
Arriva al dunque, Eastwood, non ha tempo da perdere. Prendete i flashback del protagonista: la serata del delitto non viene ricostruita a poco a poco, capiamo subito qual è il problema, al massimo si possono aggiungere dettagli che lo devastano sempre più, ma il grosso è fatto. Perché Eastwood è onesto, non vuole girarci attorno e non intende cedere alla retorica.
Giurato Numero 2 ha il passo quieto del classico, il colpo dritto del grande intrattenimento, il nitore del racconto morale, la maturità di chi ha una precisa idea di mondo. La parola ai giurati, va da sé, è una referenza evidente, anche perché, al pari di Sidney Lumet, a Eastwood non interessa tanto ciò che accade nell’aula di tribunale – gli serve per illustrare il caso e inquadrare lo schema processuale, dunque narrativo: i fatti sono ciò che raccontiamo, non necessariamente ciò che è accaduto – quanto piuttosto concentrarsi sui personaggi – sulle funzioni, addirittura – che innescano il meccanismo.
La procuratrice in campagna elettorale – curioso che il film sia uscito, in modo limitato, nei giorni delle elezioni che hanno incoronato di nuovo Donald Trump, uno che ha costruito una visione sulle fake news – che deve fare fede (si chiama Faith, d’altronde) al mandato e, quindi, sceglie di cercare la verità dei fatti oltre quella dei tribunali (Toni Colette, strepitosa). E l’imputato che, forse, è l’uomo sbagliato al posto giusto, la vittima di una società che ha contribuito a peggiorare (Gabriel Basso).
Eastwood trascende il pessimismo nella malinconia, preferisce l’esercizio del dubbio alla facilità del dogma e ci ricorda che un mondo perfetto non esiste. È il suo ennesimo film terminale (quanti da Gran Torino?) e, allo stesso tempo, l’ennesimo film che interroga le cose che davvero contano. Come quella scena finale, muta e lancinante, che si incastona nella memoria. Film d’apertura del XXVIII Tertio Millennio Film Fest.