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Il prigioniero coreano
Nam Chul-woo, una moglie e una bimba, è un pescatore della Corea del Nord. A causa di un guasto accidentale al motore della sua barca, va alla deriva e sconfina in Corea del Sud. Subito preso in custodia, viene sottoposto ad una serie di brutali indagini. E' una spia? Forse. Appurato il contrario, il pescatore potrà tornare a casa? Difficile, visto che lo scopo della democratica Seoul è quello di "liberare" i cittadini dalla dittatura di Kim Jong-un. Ma Nam Chul-woo non ne vuole sapere di "disertare": alla questione ideologica il pescatore antepone quella degli affetti, visto che rimanere lì significherebbe non rivedere mai più la sua famiglia. E nemmeno l'immersione forzata nelle "tentazioni capitaliste", tra le superfici riflettenti e luccicanti della grande metropoli, sembra convincerlo del contrario...
Il ritorno di Kim Ki-duk (al Festival di Venezia 2016, nella sezione Cinema nel Giardino) è segnato da un film che, senza troppi giri di parole, mette a confronto le contraddizioni e le similitudini di un paese (la Corea tutta) ancora troppo lontano dal miraggio della riunificazione.
Il regista de L'isola, Address Unknown, Bad Guy, Ferro 3 ha ormai affievolito la potenza dei suoi anni migliori ma non per questo ha smesso di interrogarsi sugli aspetti più crudeli (nonché inverosimili) dei nostri tempi.
Torna alla mente, seppure in chiave chiaramente differente, Il ponte delle spie di Steven Spielberg: lì c'era un muro a dividere un mondo dall'altro, qui un povero pescatore finisce invece nella rete (The Net il titolo internazionale del film) che inceppa il motore (anche della barca, sì) delle logiche umane. Innescando un incubo kafkiano dal quale sarà impossibile uscire.
La libertà, quella vera, è nel poter tornare sulla barchetta e garantire la minima sussistenza ai propri cari. Ma nel terribile ping-pong delle ideologie resterà un sogno destinato a finire... in rete.