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George & Tammy (credits: Dana Hawley)
È quintessenzialmente incardinato nelle logiche, nei modelli, negli schemi del prestige drama, George & Tammy, miniserie in sei episodi da circa cinquanta minuti l’uno che mette in campo due dei valori fondamentali che caratterizzano questo tipo di produzioni: il genere elettivo (biopic, in generale period drama) e il coinvolgimento di star che solitamente presidiano il grande schermo.
In questo caso le star sono due, l’una più irregolare e poliedrica (Michael Shannon, che ha preso il posto dell’annunciato Josh Brolin e nell’ultimo decennio ha accumulato più di trenta crediti tra cinema e televisione, quasi un caratterista d’altri tempi: dove lo metti, sta) e l’altra che, alla prima uscita statunitense della serie alla fine 2022, era addirittura la vincitrice in carica dell’Oscar alla miglior attrice (Jessica Chastain, curiosamente premiata dall’Academy per un’altra Tammy, la telepredicatrice Faye).
Shannon e Chastain danno volto, corpo e soprattutto voce ai titolari del racconto, cioè George Jones e Tammy Wynette, due leggende della musica country americana il cui tumultuoso ménage amoroso viene qui raccontato dalla metà degli anni Sessanta, quando lei è sposata con un aspirante cantautore opportunista e lui non riesce a presentarsi sobrio ai concerti, arrivando alla fine degli Ottanta.
La narrazione segue gli snodi principali delle loro carriere, il burrascoso matrimonio (sei anni, dal 1969 al 1975) e le divagazioni dolorose, preferendo un approccio più focalizzato sulla storia d’amore che sul contesto storico. Una scelta di campo precisa, perché più che alla facile allure nostalgica la serie punta al racconto di una relazione naturalmente fuori dall’ordinario eppure capace di farsi classica e svincolata dalle contingenze temporali.
Creata da Abe Sylvia (che, guarda caso, ha scritto anche Gli occhi di Tammy Faye) e diretta da John Hillcoat (il regista di The Road e Lawless), George & Tammy sfrutta le possibilità del formato seriale per approfondire anzi dilatare quel che in altri tempi sarebbe stato un film o al massimo una miniserie in due puntate.
Ma il modo in cui accoglie le esigenze del broadcaster (Showtime; da noi invece è disponibile nel catalogo di Paramount+) e al contempo strizza l’occhio al pubblico più sofisticato sta nel tono adottato, che tuttavia non ha il coraggio di mantenere fino in fondo. Come se l’idea fortemente cinematografica su cui si edifica il progetto si scontrasse con il dovere (leggi: il timore) di proporre qualcosa di più accettabile agli occhi della committenza e di meno rischioso per un pubblico domestico.
L’idea è quella del “musical interno”, dove le canzoni finiscono per avere una struggente funzione metalinguistica, andando al di là del mero dato contenutistico o perfino accessorio per collocarsi sulla linea più sfumata di un orizzonte sfuggente. Nella narrazione guidata da Sylvia, le canzoni eseguite da Tammy hanno un ruolo chiaramente diegetico, con una prossemica che non lascia spazio a equivoci (le esibizioni avvengono sul palco e in studi di incisione, ma si canta anche nelle roulotte o nei salotti), eppure la regia, nei suoi momenti di gloria, riesce a creare un’atmosfera che scontorna la biografia dalla restituzione cronachistica, conferendo alle immagini una mirabile patina malinconica.
Il prodigio avviene perché lo sguardo di Sylvia invita lo spettatore a una lettura (arbitraria? Sì, forse, comunque funzionale e quindi legittima) secondo cui le canzoni hanno di per sé una dimensione autobiografica. Perciò Chastain non si affatica nell’emulare la voce di Wynett: più che in altre occasioni (Tammy Faye per citare l’ultima), l’interpretazione soppianta l’imitazione.
Ma – e qui sta il problema – se decidiamo che la colonna sonora è l’autobiografia stessa della coppia, tutto ciò che gira attorno sembra un puntellamento pleonastico. E si rafforza così il sospetto che, tutto sommato, quei magnifici momenti musicali vadano a comporre una silloge di nobili videoclip ricalcati su quelli dell’epoca (pur con maggiori ricadute emotive), frammenti estemporanei che si impongono, a volte divorano e a volte si annullano in una narrazione che non è sempre all’altezza di quel portato melodrammatico garantito dalle possibilità del musical mancato.
Intendiamoci, i buoni momenti non mancano, la chimica tossica e romantica tra i protagonisti è resa con maestria da Shannon (smisurato senza scadere nella macchietta, inappropriato come il ruolo richiede: non scopriamo oggi che si porta dietro lo spirito dei grandi maschi alcolici della Hollywood classica) e Chastain (calda e tesa, riesce a tenere a bada i pericoli istrionici e commuove non di rado: è piaciuta ai colleghi attori, che l’hanno premiata con lo Screen Actors Guild Award come miglior attrice di miniserie o tv movie), eppure George & Tammy appare purtroppo irrisolto.
Non è abbastanza teorico e coraggioso per incaricarsi di quella suggestione da musical adulto, un po’ alla New York New York di Martin Scorsese; e non è abbastanza convinto di battere la strada forse anche più complessa del mélo in purezza, con i cantanti raccontati come due antieroi che esprimono ogni cosa attraverso le loro voci. E non solo: quelle voci appartengono a corpi prima sessualmente voraci e poi sempre più decadenti (lui segnato dall’alcolismo, lei devastata dagli antidolorifici), riecheggiano nei cuori spezzati che presidiano le anime ferite.
È come se per questi due personaggi larger than life non sia stato costruito lo spazio ideale dove articolare al meglio la loro straziante parabola romantica, come se ricorressero alle canzoni – da cui la lettura “autobiografica” – per riempire i vuoti di una narrazione incapace di accoglierli. Un’occasione sprecata, un piacere intermittente, anche perché (e questo dispiace) non accompagna i personaggi nella mitologia cinematografica che si meriterebbero.