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Lo sguardo è al mitico Nanuk l’esquimese del 1922 di Robert J. Flaherty. Erano gli albori del documentario etnografico, e Genesis 2.0, quasi un secolo dopo, è l’evoluzione naturale di quel cinema. Flaherty voleva raccontare la quotidianità tra i ghiacci, e i registi Christian Frei e Maxim Arbugaev si muovono lungo il suo percorso, ribaltandolo.
Il permafrost si scioglie, e i cacciatori vanno alla ricerca di zanne di mammut per arricchirsi con l’avorio. Intanto un gruppo di scienziati vorrebbe riportare in vita questo antenato degli elefanti. Genesis 2.0 non indaga la sopravvivenza ai confini del mondo, ma s’interroga sul futuro: la clonazione degli animali, la mappatura del DNA, progetti che sembrano figli dell’inventiva di Jurassic Park. E invece siamo nella realtà.
Il cammino di “rinascita” si snoda lungo un doppio binario. Da una parte la scienza che insegue l’immortalità, che sfida le leggi della natura. Dall’altra un gruppo di uomini che sperano di poter ricominciare: “Vorrei trovare una zanna molto grande, per venderla, e cambiare mestiere”. La tecnologia è il perno del film. La sua presenza nei laboratori cinesi e la sua quasi totale mancanza sulle isole dell’Artico. Si ragiona per opposti, in un documento dall’indubbio fascino. È un viaggio tra passato e presente, con un occhio, anche critico, sul domani.
Frei e Arbugaev provocano lo spettatore, ma è come se si tenessero in disparte. Non vogliono fornire risposte semplicistiche o alimentare luoghi comuni. L’obiettivo è informare, attraverso un sapiente montaggio alternato, e un ritmo sostenuto. Genesis 2.0 è un film corale, dove le ambizioni sfrenate dell’essere umano si scontrano contro l’immensità dei paesaggi, contro la desolazione dei confini della Siberia, contro il silenzio che avvolge un manipolo di avventurieri in cerca di fortuna. È una riflessione selvaggia, spietata, che mette in mostra lande desolate per sottolineare un’etica che ormai vacilla sotto il peso di interessi più grandi degli esseri umani.