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Cosa fanno i registi europei in trasferta americana? Naturalmente si mettono on the road, certo non l’unico ma sicuramente il modo più facile (leggi: scontato) per penetrare nel cuore e nelle viscere di una nazione-mondo.
Da Antonioni a Wenders fino a Sorrentino la strada è segnata: i forestieri spesso cinefili si lasciano suggestionare dalla possibilità di prendere possesso di una mitologia filtrata dal cinema replicando nei rispettivi film quel viaggio in America che forse stanno facendo con noi per la prima volta.
Non fa eccezione Mélanie Laurent, l’incantevole attrice francese che con Galveston è arrivata ormai, tra corti e lunghi sia doc che di fiction, all’ottava prova dietro la macchina da presa. All’origine c’è Nic Pizzolato, autore del romanzo e sceneggiatore sotto lo pseudonimo di Jim Hammett. Perché occultarsi? Ufficialmente perché i decisivi interventi della Laurent sul suo testo l’avrebbero convinto a non accreditarsi col nome vero. Tutto sommato, come suggerisce il produttore, per una discreta insoddisfazione nei confronti del prodotto.
Di Pizzolato, che non è solo un tipo poco accomodante ma anche uno scrittore che ha rivoluzionato la serialità televisiva crime con True Detective, in Galveston resta l’ispirazione lontana. È un problema? Non tanto, anche perché c’è da dire che la sua poetica non è priva di rischi e spesso ha bisogno di un regista in grado di confrontarci per trovare mediazioni ed equilibri alternativi, senza lasciarsi soggiogiare dall’impianto teorico di narrazioni spesso al servizio di spericolate riflessioni filosofiche.
In questo caso, Laurent cerca una sintesi tra il portato teorico del materiale originale e la possibilità di misurarsi con un thriller potenzialmente coinvolgente. Laurent capisce che è soprattutto una questione di personaggi e, infatti, la direzione degli attori è l’elemento che funziona meglio.
Se Ben Foster si conferma perfetto animale da crime drama in attesa di poter abitare un vero Grande Romanzo Americano, Elle Fanning continua a ragionare sulla propria immagine apparentemente verginale in conflitto con un’anima malinonicamente selvaggia. Lui è il galoppino di un criminale, condannato da un tumore e in fuga dall’agguato ordito dal capo per farlo fuori. Lei, una prostituta che ha visto troppe cose nonostante la giovane età e vuole salvare la sorella dal patrigno.
Una coppia di disperati, perfetta per questa storia di sopravvivenza alla volta di una meta, la texana Galveston del titolo, che possa essere luogo di (im)possibile rinascita.
Niente di nuovo sotto il sole che rifulge solo su spiagge senza felicità: lo schema è tipico, i modelli prevedibili, il passo modulato troppo lento. Laurent preferisce concentrarsi sulle anime sgualcite dei suoi poveri antieroi, con un approccio caloroso a cui però manca nerbo nel gestire la tensione del thriller, il palpito della caccia, la brama della fuga.
Ci sono le facce giuste (il boss Beau Bridges, la sofferta Lili Reinhart che non ha mai visto il mare: e ci credi), c’è un pessimismo ben radicato, ci sono angosce che splendono al buio. Paradossalmente è come se avesse tradotto lo spirito di Pizzolato con una fedeltà ai limiti del timore, nascondendosi nelle pieghe di una storia priva dell’elemento fondamentale degli adattamenti: il tradimento.