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Gabrielle
"Vorrei che il mio film rispondesse ad una domanda di tutti i tempi, che captasse qualcosa che appartiene all'inafferrabile, al segreto dei volti e dei movimenti". Lo confessa Patrice Chéreau perché è conscio, da uomo di teatro qual è, quanto travolgente e difficile e quasi anti-cinematografica sia la breve storia - tre giorni appena nella Parigi intorno al 1912 - che racconta, assorbendola dal racconto breve di Joseph Conrad Il ritorno. Tutta racchiusa tra le mura sontuose e livide che conservano e proteggono nello scorrere impietoso ed annoiato dei giorni una ricca coppia borghese. Un palazzo che ospita soltanto due corpi, una prigione preparata e alimentata da dieci anni di sterilità e ipocrisia affettive. Ma qual è la domanda che solca i tempi, qual è la vocazione universale di questo bellissimo, dolorosissimo film e di Gabrielle, così il titolo, che ne è protagonista? La domanda, che si ripropone ogni qual volta la scrittura, l'immagine, la musica si avvicinano al volto e all'essenza di una donna, alle sue sofferenze, solitudini e vulnerabilità, parte dalla crisi devastante che questa coppia subisce, confrontandosi con l'artificiosità del loro amore, la superficialità del loro essere. La domanda è dentro questo impietoso esibire le proprie fragilità: lei comunica con scarna lettera l'abbandono definitivo, ma lascia il marito per tre ore e mezza soltanto e poi torna, senza motivi da addurre, senza pretesti, senza soluzioni. Un volto rigato dalla rabbia e segnato dal pianto, quello intenso e straordinario di Isabelle Huppert. E lui, Pascal Greggory, sentendosi tradito e oltraggiato più nelle convenzioni maschili che nel cuore umano, subissandola di domande, non riuscirà a trovare drammaticamente alcuna risposta. Si percepisce come si cammini sul vuoto quando l'amore non riesce a nutrirsi di desideri e ideali che superino la fugacità della passione, la formalità dell'apparenza, la sicurezza del denaro. Nello scontro passionale e appassionato di Gabrielle e del marito - intessuto da sapienti variazioni tra colore e bianco e nero e supportato in modo eccelso, negli snodi drammatici, dalla musica di Fabio Vacchi - si erge lacrimosa e furiosa quella parte dolente della natura umana che non riesce a liberarsi dalla pesantezza dell'avere e dell'apparire, per vivere la libertà responsabile dell'amore come dono, che rende una coppia, un uomo e una donna, anche un meraviglioso progetto di Dio e della natura.