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Una scena di
Gabbla
Dovesse aggiudicarsi il Leone d'Oro, diffidate dai molti che saliranno sul carro del vincitore. Perché Gabbla (Inland) dell'algerino Tariq Teguia potrebbe sorprendere i tanti che, durante la proiezione per la stampa, l'hanno abbandonato al proprio destino, convinti che il massimo dei riconoscimenti per cui potesse concorrere fosse il Leone di marmo.
Certo, gran parte dei 140' sembra arrivare direttamente dalle Giornate del cinema muto di Pordenone, ma non per questo il secondo film africano in Concorso manca di spessore e, soprattutto, vitalità: riflessione sull'immobilità e sulle tensioni (territoriali, come da titolo, e umane) di un paese in perenne transizione, Gabbla si fa cinema di spazio e luogo, costrizione e fuga, trasformandosi via via in luminoso e violentissimo apologo sulla distruzione di qualsiasi frontiera.
Perno centrale della vicenda è Malek (maschera incredibile quella del non attore Fethi Ghares), topografo incaricato di fare rilevamenti per portare l'elettricità in una regione desolata dell'Algeria occidentale, vessata dal fondamentalismo e caratterizzata dalla presenza di mine: nel silenzio e nel calcolo di millimetriche distanze, nell'incontro con rudi poliziotti od ospitali contadini, le flebili dinamiche del luogo si fanno interiorizzazione e stasi. A "sconvolgere" gli equilibri - del protagonista così come del film - l'incontro tra Malek e una giovane in fuga verso l'Europa: le derive esistenzialiste e cinematografiche di Gabbla si fanno da questo momento in poi emblema di una sperimentazione che lascia senza fiato, commistione di suoni ed immagini per accompagnare idealmente le rotte di un tracciato (politico, umano, geografico) che - in una fine senza fine - si perderà, divenendo tutt'uno, nel miraggio "flickerante" di un immenso deserto. Senza confini.