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Fury
Il cinema bellico è un genere difficile, costretto a confrontarsi con questioni politiche, storiche e sociali delicate. Negli ultimi anni molti grandi registi ne hanno dato una loro visione, da Spielberg a Eastwood, passando per Malick e Tarantino, opere diverse e diversamente mirabili. Mancava nel panorama contemporaneo un film che ritrovasse l’estetica della violenza come manifesto dell’inutilità delle guerre proprio di iconoclasti straordinari come Aldrich, Fuller e Peckinpah.
Un tentativo lo fa David Ayer con Fury, storia dell’equipaggio di un carro armato americano nella Germania che sta per cadere alla fine della Seconda Guerra Mondiale. Veicolo voluto e confezionato su misura per Brad Pitt, sorta di Achab con il panzer, questo war movie tra Il Grande Uno Rosso e Il mucchio selvaggio soffre proprio dell’invadenza del suo superomistico protagonista, oltre che di una struttura tragica in cinque atti sin troppo classica e prevedibile.
Il cast si adegua e tratteggia personaggi ineluttabili come la fine di questa parabola pseudopacifista, ma Ayer regala comunque una delle migliori sequenze degli ultimi anni, una memorabile battaglia tra tank che batte qualunque videogioco.