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Anthony Hopkins e Matthew Goode in Freud - L'ultima analisi
Anthony Hopkins è un campione del gioco a due dialettico sin dai tempi in cui dominava verbalmente Clarisse, il personaggio di Jodie Foster, ne Il silenzio degli innocenti. Se c’è un film però che rende plasticamente la postura à la Hopkins quello è I due papi di Fernando Meirelles (2019), dove l’attore britannico è l’affilatissimo Benedetto XVI e Jonathan Pryce il suo successore Francesco. Un’opera cui idealmente si ispira anche Freud – L’ultima analisi , in cui il nostro può gigioneggiare senza pudore nei panni del padre della psicanalisi. Stravaccato sulla chaise longue, con il sigaro in bocca, pontifica, declama e provoca al cospetto dello scrittore, CS Lewis. Non esattamente il temibile rivale di una singolar tenzone dialettica, tale è il garbo e il timore reverenziale dell’autore de Le cronache di Narnia, cui Matthew Goode regala una regalità british degna di The Crown (in cui in effetti Goode ha lavorato, portando la maschera di Antony Armstrong-Jones, marito della principessa Margaret e cognato di Elisabetta).
Un’affettazione eccessiva che lascia campo alla vis polemica di Freud/Hopkins mentre i due amici/nemici per caso discettano di padri, biologici e celesti. Freud per via del suo tormentato rapporto con la figlia Anna, psicanalista anche lei e lesbica. Non un dettaglio per Sigmund che, nonostante o forse a causa della consapevolezza dello scienziato che ha capito prima di ogni altro i legami tra sesso e sviluppo della personalità, fatica ad accettare l’orientamento dell’erede, cui lo lega un rapporto che definire morboso è un eufemismo. Se essere genitori è un tarlo, essere figli può essere anche peggio: per un Anna che non riesce a liberarsi del padre, c’è Freud che quel padre lo rifiuta ostinato. Dio è al centro della disputa con l’ateo convertito CS Lewis. Le posizioni sono chiare, le argomentazioni hanno un che di già sentito.
Freud – L’ultima analisi (sottotitolo gratuito, va detto) è un dramma da camera cui mancano solo le quinte disegnate. Per il resto è teatro al cento per cento, a partire dal soggetto originale, la pièce di Mark St. Germain, che Matthew Brown, già regista di un altro tête-à-tête intellettuale, quello tra il matematico indiano Srinivasa Ramanujan e l’amico e mentore Professor G.H. Hardy in The Man Who Knew Infinity, ricuce a fil di parola e senza troppe circonlocuzioni cinematografiche, a parte le continue e in fin dei conti inutili digressioni nel passato. La struttura a flashback non è veramente giustificata e finisce semmai per appesantire l’impianto dialogico dell’opera. Il confronto di idee, ancorato alla presenza di due attori carismatici, vale comunque la visione. E alcuni dettagli privati su Freud, destinati a essere rimasticati nel gossip del circolo letterario, saranno oggetto di scoperta per molti spettatori.