Quarto lungometraggio dell’iraniano-britannico Babak Jalali, Fremont prende il titolo dal ghetto popolare della comunità californiana, nella Bay Area, da molti chiamata Little Kabul perché ospita una delle più grandi enclave di afghani negli Stati Uniti. Qui ha trovato rifugio anche Donya, che trascorre le sue giornate nell’attesa di qualcosa: tra la scrittura dei biglietti da nascondere nei biscotti della fortuna e le quotidiane cene in un ristorante cinese gestito da un anziano appassionato di soap opere, vive con il complesso di colpa di essere non solo una sopravvissuta ma anche un’espatriata (anzi, spatriata, a sottolineare l’irregolarità dei vagabondi, lo smarrimento delle persone interrotte, il desiderio di sfuggire alle convenzioni).

Per convivere con un trauma che si manifesta soprattutto di notte, quando l’insonnia le impedisce di dormire, riesce in modo rocambolesco a diventare la paziente di un terapista. Che, con un atteggiamento spesso bizzarro, la mette di fronte ai sogni e ai bisogni che albergano oltre il suo sguardo guardingo.

Non è un caso che Fremont si articoli per immagini fisse e quadri monotoni, scegliendo i movimenti di macchina solo quando Donya si mette on the road, investendo lo status di rifugiata dell’essenza del racconto americano (il viaggio come metafora). E portando Donya fuori dai confini e dai limiti di Fremont, concedendole la possibilità dell’amore che si merita.

Scritto da Jalil con Carolina Cavalli (che nel 2022 ha esordito alla regia con Amanda), passato al Sundance Film Festival 2023 e ora in Concorso Progressive Cinema alla Festa di Roma, Fremont è un film molto equilibrato (a volte troppo, ma l’understatement è una vocazione), character study e spaccato malinconico che con sobrietà e misura sa trasmettere l’ineluttabile tendenza alla reiterazione, al ripiegamento e all’inibizione di un monocorde paesaggio con figur(in)e. E lo mette in connessione con il desiderio di emancipazione sentimentale di una ragazza (ben resa dalla newcomer Anaita Wali Zada, una rivelazione per capacità di sottrazione e interpretazione in levare) che forse nella vita ha già visto troppo, che nei biscotti non sa non inserire la promessa di una gioia futura (“la felicità è in un altro biscotto”, scrive per prendersi beffa del destino e di chi cerca nella sorte la risposta impossibile) e che, di fronte all’ipotesi di una svolta, capisce di dover accogliere tutto.

C’entrano un misterioso regalo, un’automobile in panne e un meccanico che ha gli occhi tristi di Jeremy Allen White, a cui bastano i dieci minuti finali per imprimersi nella memoria: con il carisma di chi sfrutta al meglio timidezza e imprevedibilità, entra in campo con atteggiamento quasi scettico, si lascia coinvolgere dall’atmosfera e illumina la scena dando la misura di cosa sia un film romantico (“Non ho mai conosciuto una ragazza afghanistana” è di una tenerezza disarmante). Dedicato alla produttrice Marjaneh Moghimi, vincitore agli Independent Spirit Awards del John Cassavetes Award (il premio al miglior film realizzato con un budget inferiore al milione di dollari: sì, è costato meno di un milione).