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Ispirato a una storia vera, Free in Deed è un film che procede con un ritmo molto simile alle litanie religiose intonate dai pastori improvvisati delle chiese della desolante periferia americana. Un canto insistito, ossessivo, mai liberatorio: una preghiera urlata a un Dio che non risponde e ci abbandona, soli e disperati, nel fango di una Terra umiliata.
Free in Deed è la rincorsa di una speranza che non accarezza e non consola, ma illude.
Melva è una ragazza madre di due bambini, un maschio, Benny, e una femmina, Etta, che ha appena perso il lavoro. Il figlio maschio è affetto da una grave patologia mentale che lo porta a comportamenti dissociati e autolesionisti: urla continuamente, batte la testa contro il muro, si lancia di corsa in mezzo alla strada. La sua condizione disperata convince la mamma a iniziare a frequentare una delle cosiddette storefront churches, le chiese ricavate da negozi dismessi che pullulano nelle periferie americane come quella di Memphis (Tennessee) in cui è ambientato il film. Qui il pastore Abraham, uomo solo e tormentato, inizia a praticare sempre più spesso delle lunghe sessioni di esorcismo per tentare di guarire il bimbo e arrivare lì dove la medicina e le istituzioni sembrano fallire.
I canti liturgici, le preghiere corali cantate nelle adunate delle piccole chiese, i gospel ripetuti si incastrano con i riti dell’esorcismo, le angosciose crisi del bimbo e le immagini di un’America tanto più periferica e abbandonata quanto autentica. Il film non lascia scampo, e il vortice di false speranze in cui tutta quella religione gridata ed esibita trascina i protagonisti della vicenda è solo il naturale preludio a un finale tragico.
Ma il film è molto più di una denuncia della solitudine, dell’ignoranza e della povertà della provincia americana. In quegli angoli bui vive infatti un’umanità sconfitta e dolente che però si aggrappa con tutte le sue forze a un’idea di comunità, anche se distorta, anche se ammalata di una religione arcaica, premoderna, quasi magica, sicuramente irrazionale. In quei gospel, nelle lunghissime, strazianti celebrazioni liturgiche, perfino negli sconnessi esorcismi, c’è molta più umanità, calore e solidarietà che nella glacialità delle istituzioni. La polizia interviene sporadicamente e sembra accanirsi su questo microcosmo di disperati, i medici che hanno in cura il bimbo gli somministrano con terrificante distacco quelle medicine che pure dovrebbero aiutare nella cura della malattia.
Ma la malattia mentale sembra assurgere a metafora di un male superiore, di un demone di disperazione che attanaglia tutti i protagonisti, a partire dal pastore Abe che, lucidamente e follemente, è convinto di poter salvare Benny, tanto da respingere perfino le richieste d’amore di Melva, calato com’è nella sua idea di “missione”. In un mondo del genere sembra non esserci nessuna possibilità di salvezza.
Eppure è un racconto che va fatto, come un imperativo categorico: Jake Mahaffy va con la telecamera nel cuore delle storefront churches, segue cerimonie vere, riprese dal vivo per sottolineare l’autenticità del racconto, la verità di tanto dolore, uno spaccato di umanità. Realizza dei veri e propri ritratti con i primi e primissimi piani dei protagonisti, documenta la follia e la speranza, la solitudine e il dolore, l’angoscia e la disperazione, i canti e le preghiere, le urla e i sussurri, la fede e l’amore. Si lascia coinvolgere e trascinare, e ci costringe a seguire fino in fondo l’inarrestabile processo di devastazione umana e spirituale della storia.
Eppure è proprio attraverso questo sguardo che si può ritrovare un senso e dare voce a chi voce non ha. Se non per cantare (gridare?) inni a un Dio oramai scomparso.