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La volontà di tornare all'antico era esplicita già all'origine dell'operazione: riprendere il corto in stop-motion che Tim Burton ha realizzato nel 1984 e renderlo un lungometraggio. Stesso spunto di partenza – il bimbo incompreso ma geniale che riporta in vita il cagnolino trapassato alla maniera del dottor Frankenstein – stesso gusto cinefilo, stessa destrezza con la storica tecnica d'animazione che fortunatamente sta tornando di moda (vedi anche il lavoro di Henry Selick, che proprio con Burton ha collaborato ai tempi di Nightmare Before Christmas).
Se un salutare tuffo nel passato poteva essere più che ben accetto, dopo aver visto il lavoro finito si ha però la malcelata impressione che Burton l'abbia fatto perché al momento sprovvisto di idee originali, come più o meno testimoniava il suo ultimo Dark Shadows. La riproposizione di Frankenweenie è infatti sorprendentemente piatta, soprattutto nella prima parte mancante di trovate realmente interessanti. Il lavoro sul ritmo narrativo è specifico e lodevole, ma forse anacronistico: la magnifica sequenza della rianimazione del cagnolino protagonista è infatti costruita sui tempi dei vecchi horror classici, il che la rende deliziosa per il pubblico più cinefilo ma probabilmente noiosa per tutto il resto degli spettatori. Anche la musica del fidato collaboratore Danny Elfman stavolta è ripetitiva, a metà strada tra due gloriose colonne sonore del passato come Batman e Edward mani di forbice, entrambi diretti da Burton.
Il divertimento in Frankenweenie sta nell'ammirare gli innumerevoli omaggi al grande cinema dell'orrore dei tempi andati, ma non riesce ad andare oltre. Il finale tenta una virata verso il genere catastrofico e conseguentemente accelera il tono della narrazione, espediente che comunque non salva del tutto il risultato dell'operazione. Il già citato Nightmare Before Christmas e La sposa cadavere erano tutt'altro cinema. Tim Burton deve ritrovare la vena creativa dei tempi migliori.