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Francofonia è altra cosa. Non solo per il talento cinematografico, lo spessore umano del regista Aleksandr Sokurov, ma perché va oltre il film per come lo consociamo oggi: si direbbe d’impronta godardiana, per quanto e come riflette sul linguaggio cinematografico, ibrida e mashuppa filmico e profilmico, si destreggia tra formati, supporti, suoni, rumori, selezione e combinazione dei segni.
Francofonia è meta-film e oltre il film, perché se l’arte è destinata a perire tra i marosi mondani, che sono insieme della natura e della politica umana, entrambe senza coscienza, non c’è tempo. Bisogna fare in fretta, bisogna fare cinema.
Giugno 1940, i tedeschi hanno preso Parigi: il conte Franz Wolff-Metternich (Benjamin Utzerath), capo del Kunstschutz, la commissione tedesca per la protezione delle opere d’arte in Francia, incontra Jacques Jaujard (Louis Do de Lencquesaing), il direttore del Louvre, colui che ha concepito e predisposto il piano d’evacuazione dei musei francesi. La storia e la Storia, il film nel film, perché Sokurov è, appunto, oltre, non solo meta-testualizza, ma inter-testualizza guidato da un solo faro: l’umanesimo.
Con i musei ci sa fare: all’Hermitage di San Pietroburgo nel 2002 aveva realizzato Arca russa, un piano sequenza di un’ora e mezza, l’anno precedente al Bojimans Museum di Rotterdam Elegy of a Voyage. Al Louvre, ha confessato, non ha avuto vita facile, ma non ha smobilitato: nei saloni del Louvre, di fronte ai quadri celeberrimi, gli spettatori eletti sono due, la Marianne libertèegalitèfraternitè e Napoleone, il vero fautore e, sì, pure custode del Louvre. Guarda la Mona Lisa e lo dice: “Sono io”. Difficile dargli torto, non c’è arte senza Marte.
Lo scandalo, se di scandalo vogliamo proprio parlare, sta qui: il collaborazionismo, se non franco-tedesco tout court, di certo tra Metternich e Jaujard ha salvaguardato le opere d’arte, mentre sul fronte russo i nazisti avrebbero messo a ferro e fuoco l’Hermitage bolscevico. Due pesi, due misure: Sokurov non ignora ed echeggia l’Aleksandr Nevskij, ma più che affondo geopolitico, pare un monito e, insieme, un grido di dolore per troppe notti bianche, che a San Pietroburgo durante la guerra si mangiavano anche i bambini, e non per manifesto comunismo. Chissà, comunque, se oltre, probabilmente, agli screzi con il direttore e l’entourage del Louvre il mancato passaggio a Cannes sia da addebitarsi a questo collaborazionismo.