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Fortuna - Foto Marina Sgamato
“Sindrome da disorientamento temporale. Lo dice la parola: temporale. Come la pioggia, poi passa”.
Fortuna è una bimba spaesata. La mamma (Valeria Golino) e il papà (Libero De Rienzo) la chiamano Nancy, la psicologa (Pina Turco) piuttosto che provare ad ascoltarla, a tirarne fuori l’angoscia, trascorre l’ora del colloquio a smanettare sullo smartphone.
Solamente sul terrazzo condominiale del suo palazzone fatiscente, la ragazzina insieme alla migliore amica Anna e al fratellino di questa torna a “essere” Fortuna, una principessa in attesa di tornare sul suo pianeta nello spazio.
Era forse impossibile “avvicinarsi”, trarre spunto cinematografico da uno dei fatti di cronaca più aberranti della nostra storia recente, la morte di Fortuna Loffredo, bambina di sei anni gettata dall’ottavo piano di un palazzo al Parco Verde di Caivano, nel 2014. Morte che, solamente più tardi, sollevò il velo su una terrificante sequela di abusi, costanti, risaputi, che in molti tennero nascosti per anni.
E l’esordio al lungometraggio di finzione di Nicolangelo Gelormini, Fortuna, per l’appunto, riesce laddove qualsiasi immagine, qualsiasi parola, qualsiasi “commento”, non sarebbero stati in grado di arrivare.
Set di “Fortuna”, regia di Nicolangelo Gelormini. Nella foto Cristina Magnotti, Pina Turco e Valeria Golino. Foto di Serena PetricelliSvincolandosi sapientemente dalla cronaca, dal resoconto, da un neoneorealismo che, inevitabilmente, si sarebbe messo sullo stesso piano dell’irrappresentabile, dell’osceno, Gelormini (anche autore dello script con Massimiliano Virgilio nonché autore del montaggio, elemento chiave dell’intero film) si porta piuttosto sui territori del fantarealismo, sfiora suggestioni care al cinema di Davide Manuli (La leggenda di Kaspar Hauser), lavora sui formati (aprendosi a tutto schermo poco a poco che la verità tornerà in superficie), spezza il racconto più e più volte, con l’irruzione di silenzi simili a boati, creando un oggetto filmico alieno, disturbante, agendo su immagini e suoni, musiche (notevolissime, dei Golden Rain) e angolazioni di sguardo che è spesso difficilissimo ritrovare nel nostro cinema, men che meno in un’opera prima.
Fortuna è un film importantissimo, oltre che coraggioso, perché non scende a patti con la solita, abusata, messa in scena da “periferia napoletana” che ormai sembra esser diventata un genere a sé del nostro audiovisivo, ma ne suggerisce i tópoi, i classici cliché senza farsene fagocitare. Soprattutto, il film di Gelormini (già assistente di Paolo Sorrentino) evita qualsiasi didascalia, qualsiasi raccordo di comodo, mettendosi ad altezza bambino e gettandosi senza paracadute nel disorientamento psicologico neanche lontanamente immaginabile in situazioni di tale tossicità.
Fortuna - Foto Marina SgamatoNancy/Fortuna (Cristina Magnotti) è dunque la doppia protagonista di uno scenario in cui i ruoli si sovrappongono e si ribaltano, con Valeria Golino dapprima madre poi psicologa (e viceversa per Pina Turco), dove la storia spezzata si trasforma in strumento necessario per traghettare lo sguardo da una parte mentre la vicenda corre dalla parte opposta, dove il dietro le quinte, l’immagine nascosta, rubata, divengono frammenti di un orrore senza fine.
Quello perpetrato dai giganti, “altissimi e senza faccia”, che arrivano quando vedi i fiori blu. L’orrore di una società intera che distrugge il mondo dell’infanzia, profanandone l’innocenza.
Un esordio sorprendente, di grande impatto, da non sottovalutare.