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Following
C’è in Following, il suo lungometraggio d’esordio del 1998, molto del Christopher Nolan che apprezziamo. E anche qualcosa che apprezziamo ma che non ha trovato seguito. Il 23 agosto arriva per la prima volta nelle sale italiane, sfruttando la concomitante uscita del suo dodicesimo film Oppenheimer, con la benemerita Movies Inspired, ed è interessante, persino affascinante riscontare ricorrenze poetiche, analogie stilistiche, insomma, i tratti distintivi di un autore mainstream tra i più celebrati del XXI secolo.
In breve, Bill (Jeremy Theobald) è un aspirante scrittore, senza idee e senza una sterlina, la cui principale occupazione è seguire sconosciuti per le strade di Londra alla ricerca dell’ispirazione. Finché l’enigmatico Cobb (Alex Haw ) non lo coglie in flagrante, e lo attira nella propria rete di ladro e molto altro: la fascinosa bionda (Lucy Russell) c’è, insieme ai topoi del thriller, girato in elegante bianco & nero, impreziosito da ottimi interpreti e, sopra tutto, da una sveltezza, da una precisione che fa di questa opera prima sintassi cinematografica e sentenza umana parimenti encomiabili.
L’allora ventottenne Nolan diresse, scrisse soggetto e sceneggiatura, firmò la fotografia, collaborò al montaggio e coprodusse, imponendosi quale regista-demiurgo, un autarchico di talento, capace di innestare nel genere le proprie istanze autoriali, la propria arte industriale.
Per simmetrie e rimandi nel corpus Wikipedia fa il suo, più utile è forse - accanto a quel che rimarrà: i piani temporali sfalsati, dunque, un certo montaggio delle attrazioni, il senso per la violenza, l’attitudine dialogica, la tensione dialettica per la sospensione della incredulità, il lavoro con gli attori, la cura musicale (bella colonna sonora di David Julyan), la competenza e performanza tecnica e via discorrendo - notare quel che Nolan si sarebbe perso, o avrebbe lasciato, per strada.
Detto che Following echeggia, solo letteralmente, Fear and Desire, l’esordio di quel Stanley Kubrick che nel novero del cinema qui e ora Nolan più di chiunque rassomiglia, i suoi settantuno minuti bianchi e noir, accolti dal Tiger Award di Rotterdam 1999, manifestano, perseguono, effondono e ridondano un’eleganza, una sprezzatura, ancor più preziosa per il basso budget e le infinite costrizioni della lavorazione, che il suo autore non avrebbe eternato.
Così come non avrebbe più palesato questa dimestichezza e paritarietà nei rapporti di genere, sui cui progressivamente si sarebbe proiettata una latente (?) misoginia, riscontrabile con ogni evidenza in Oppenheimer.
Già, accanto ai sintomi, i prodromi della futura, completa grandezza il debutto aveva, e ha, una sua idiosincrasia non meno compiuta, dunque non solo la potenza ma l’atto. Un thriller colto per retaggio, di cui è spia scoperta la nomenclatura paradigmatica dei personaggi: “il giovane”, “la bionda”, “il poliziotto” e Cobb, che tornerà ladro in Inception, apolide per definizione (l’hardboiled americano, il polar francese, la verticalità di Siodmak, il respiro di Gordard e quel che vi pare), spietato per efferatezza narrativa, intelligenza strutturale, precisione drammaturgica, epperò arioso, leggero se non leggiadro, facile quanto felice.
Sì, Following dice(va) del Nolan che era, oltre che di quel che sarebbe diventato, e dell’arte che è: può volere tutta la fatica del mondo, ma non la deve tradire. Non perdetelo.