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Flavio Bucci
Fa una strana impressione che Flavioh, il documentario diretto da Riccardo Zinna dedicato a Flavio Bucci, interprete di talento del cinema italiano, sia stato proiettato alla Festa del Cinema di Roma con Bucci vivo e vegeto – quando, come commenta nel film Armando Pugliese, parlare in termini celebrativi e conclusivi “di uno che è ancora in vita e che non è neanche vecchio… ti fa venire i nervi, pare che si stia parlando di un morto” – mentre Zinna per un soffio non ha potuto presentare il suo lavoro.
E il senso di una perdita che non è però una sconfitta permea tutto il documentario. Di Bucci si parla in termini di assenza, di passato, eppure è vivo e vegeto (a fronte di decenni di eccessi e dipendenze) e spezzoni di film testimoniano la sua incontrovertibile presenza storica in termini attoriali e di impegno civile.
Mentre di Zinna, che da esattamente un mese non c’è più, vediamo un lavoro vivo e sincero, che celebra sì la persona di Flavio Bucci ma che si configura anche come una riflessione sullo stato del cinema e sulla vita, sulle responsabilità di chi nel cinema ci lavora, che sia attore, regista o produttore.
Riccardo ZinnaFlavioh è un documentario on the road: a bordo di un camper la troupe accompagna Flavio Bucci da Torino ad Amsterdam, passando per i luoghi della sua giovinezza, ma soprattutto a incontrare persone importanti della sua vita, familiari e colleghi.
Da Giuliano Montaldo a Claudio Mancini, un commosso Alessandro Haber e Michele Placido, i ricordi degli amici e colleghi interpellati sono agrodolci, affettuosi e strabordanti di stima, eppure il risultato non è quello di incensarlo perché sullo schermo è evidente la presenza ingombrante e dissacrante di Bucci, con la sua ironia in primo luogo verso se stesso. Un attore che non è mai stato divo, “giammai borioso, perché la vanagloria è il nutrimento dei privi di talento”.
Quello di Zinna è un documentario raffinato nella scelta del girato (che oltretutto partendo da più di 200 ore si limita alla piacevole durata di un’ora e venti) e nello sguardo spontaneo e acuto, erratico nella sua ricerca sincera di pezzi di realtà e di passato.
In sottofondo la colonna sonora composta dallo stesso Zinna, melanconica e potente, ben si presta ad accompagnare questo viaggio presente nel passato. Flavioh offre una testimonianza che non pretende di ergersi a indagine di un’anima che ha ceduto alle brutture della vita ma che ha anche avuto il desiderio e il tempo di lavorare per quello che riteneva importante.
“Vengo da un cinema impegnato a livello civile e democratico. Adesso quello che vedo è soltanto il raccontare una storia più o meno fattibile, opinabile, senza grandi tematiche”, dichiara Bucci nel corso del film. “Anni fa era diverso, ti sentivi parte del mondo, della tua civiltà, del mondo attivo, di quello politico di quello sociale, pensavi di contare qualcosa”.
Le droghe e l’alcool non sono sensazionalisticamente piazzate in primo piano, se ne parla apertamente solo a metà del film, con l’“elefante nella stanza” si interloquisce con garbo e quindi non è l’eccesso ad essere sottolineato (è solo il figlio Alessandro a poterlo paragonare a Mick Jagger), perché Bucci è raccontato soprattutto come un attore che non si è mai legato al carrozzone e ha sempre sostenuto i propri valori, un uomo che ha vissuto la vita in modo estremo, senza mai negare i propri errori e senza compromessi.
“Il mio viaggio l’ho compiuto al massimo di quello che volevo ottenere dalla mia esistenza umana. Quello che hai di fronte è un uomo realizzato, con tutte le mie colpe”.