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Michela Giraud in Flaminia
C’è qualcosa di vanziniano nelle prime scene di Flaminia, esordio da regista della stand up comedian Michela Giraud, naturalmente anche protagonista nonché sceneggiatrice (con Francesco Marioni, Greta Scicchitano e Marco Vicari). L’incidente in auto con i passeggini occupati dai cani, la smorfia dello spazzino di fronte alla mitomania ambulante, l’appuntamento al parrucchiere dove spettegolare e rifiutare dolci (“Non mangio una carbonara dall’ultimo governo Monti”), la madre che condanna la sciatteria quale massima vergogna e venera un vaso di ceramica di Paola Paronetto (Lucrezia Lante della Rovere nella cripto-parodia di un tipo umano che conosce bene), il namedropping di quartiere (il sottosegretario, i notai, il chirurgo plastico, la pasticceria), i riferimenti all’immaginario collettivo (“un avvocato in famiglia serve sempre, manco fossi la nipote di Toto Riina”), la regia essenziale, le caratterizzazioni al limite della macchietta, la musica imperante di Fabio Frizzi.
C’è anche qualche intuizione non originale ma ben impiantata, come i sottotitoli “onesti” nel dialogo con Saverio Raimondo nei corridoi della Sapienza. Tuttavia, Flaminia non è Le finte bionde al tempo di Instagram ed è solo in parte quell’affresco di una borghesia arricchita, burina, gretta, tendenzialmente di destra che ci promette qua e là. È piuttosto il racconto di un rapporto rimosso e ritrovato: quella tra la protagonista, figlia di un chirurgo plastico (Antonello Fassari) e prossima al matrimonio con un debosciato “che si è fatto tutta Roma Nord”, rampollo (Edoardo Purgatori) di un diplomatico (Andrea Purgatori, ultimo cameo prima della prematura scomparsa) e di una dama della carità (“l’Angelina Jolie della beneficenza romana” cioè Nina Soldano), e la sorellastra (Rita Abela), una trentenne nello spettro autistico appena uscita dalla comunità dopo aver appiccato un incendio. L’irruzione dell’elemento divergente intralcia l’ascesa sociale della futura sposa, ma il disastro iniziale lascia spazio a un legame inaspettato.
C’è la biografia di Giraud all’origine di Flaminia e c’è la necessità di raccontarsi al di là delle maschere, quasi separando l’immagine pubblica (due passaggi: Flaminia che ripudia le canzoni simili a quelle del repertorio di Giraud e Flaminia che schifa una ragazza che guarda i video “della Giraud”) dal personaggio del film. Questo desiderio di restituire una parte di sé (con generosità e cognizione di causa, non c’è dubbio), abbracciando una componente drammatica che domina la seconda parte (ma Greta Gerwig o Phoebe Waller-Bridge sono lontane), finisce per portare la commedia altrove: la ferocia delle prime sequenze cede il passo a una malinconia che resta un po’ sulla superficie (la fuga al mare, le poste fuori alla palestra, l’amaro dialogo con il futuro marito), lo sguardo acido dall’interno del sistema (Roma Nord è come il Vietnam?) si trasforma in una prevedibile presa di coscienza dell’ipocrisia, i “temi” della “diversità” (da una parte le ossessioni alimentari, dall’altra i disturbi dello spettro autistico con la provocazione del medico sulle affinità tra Flaminia e Ludovica) si impadroniscono della narrazione. E i finali si rincorrono senza nascondere il bisogno di mettere ogni cosa al proprio posto, con forse troppa cedevolezza.