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Dopo l’instant-cult La La Land, il 33enne Damien Chazelle cambia tutto, eccetto il protagonista Ryan Gosling: First Man alluna un altro cinema sperabile, un altro film possibile, nel segno di una precocissima maturità dietro la macchina da presa. Anziché tenersi sulla scia dorata di La La Land, Chazelle sfrutta quel successo per qualcosa di più prezioso: libertà di osare, libertà di trasgredire, facendo di un (fra)inteso Apollo 13, un Sully, un Interstellar, ovvero spazio, viaggio e coraggio, una raggelata elaborazione del lutto, un dramma trattenuto di sopravvissuti altrimenti e vanamente chiamati astronauti.
Chazelle, che trasforma la sceneggiatura di Josh Singer (da libro di James R. Hansen), fa del famoso “un piccolo passo per un uomo, un grande balzo per l’umanità” di Neil Armstronig (Ryan Gosling) un war movie di fiamme, esplosioni e morti sul campo, ovvero in cielo; un film sui reduci; un cancer movie e un dramma familiare. E lo fa calmierando il propellente primo della missione, l’ideologia, ovvero la volontà di superpotenza sui preponderanti sovietici, e togliendo ogni epica, ogni patriottismo, ogni vittoria: non si va, meglio, non si arriva sulla Luna per piantare la bandiera, ma per dare estrema sepoltura a una figlia, la prediletta Karen.
L’uomo bianco è sulla Luna, stigmatizzano i neri; si è finalmente avverato il progetto del defunto Kennedy, ribattono altri; la politica alluna, questa sì, ma First Man poco se ne cura, viceversa, punta all’umano, e a quello che meglio lo tratteggia: Neil è un duplice sopravvissuto, alla morte della figlia e al decennio di spedizioni, esperimenti e fallimenti che porta al successo dell’Apollo 11, a quel passo-balzo del 20 luglio 1969. Con lui non alluna un eroe, ma un sopravvissuto, come è forse l’America tutta a se stessa, come lo è di certo l’umanità: non si balla, si frigge tra le stelle; non si agogna, si pianifica; non si sogna, si esegue.
E ne viene un’educazione sentimentale in cui l’anaffettivo è lessico familiare, precipitato del lutto, almeno per Neil: se la moglie Janet (Claire Foy) lo esorta a parlare ai figli prima di partire, e forse non tornare, Neil chiede loro se hanno altre domande. Sicché quando Janet dice al piccolo che papà andrà sulla Luna, non potrà che sentirsi rispondere: “Ok, posso uscire a giocare?”.
Dopo il passo-balzo, insieme all’altro allunato Buzz Aldrin (Corey Stoll, buono a farne un gradasso), Neil starà un mese in quarantena: poco male, c’è ancora un diaframma tra la sua e la mano di Janet, ma Karen è finalmente riuscito a farla andare, lassù.
Un Gravity sul serio, e per Storia; un 2001, senza fanta (e filosofia); che altro è First Man? Non teme la noia ingegneristica, le sequenze meccaniche, il pathos ai minimi, una recitazione quasi anodina di Gosling – cast superbo, tra astronauti e capi ci sono anche Jason Clarke, Patrick Fugit, Kyle Chandler – e tantomeno un’ostica commerciabilità: attorniato dai suoi sodali (Justin Hurwitz per le belle musiche), Chazelle guarda la luna, ma vede l’uomo.