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(Credit: Image'Est)
Avevano le fiamme negli occhi, Katia Conrad e Maurice Krafft, scienziati francesi che per venticinque anni hanno viaggiato insieme in giro per il mondo, mappando centosettantacinque vulcani in eruzione grazie a fotografie, registrazioni, osservazioni raccolte sul campo.
Pionieri nell’operatività e divulgatori della materia, avventurosi per passione e spericolati per deformazione, hanno contribuito a rendere più democratica la conoscenza della già di per sé affascinante disciplina della vulcanologia, rincorrendo le nuvole di cenere e sfuggendo alla lava con la dedizione degli studiosi e il furore degli esploratori, arrivando a costruire un incredibile archivio personale di pellicole in 16 mm. Purtroppo, a forza di avere a che fare con il fuoco, i coniugi Krafft morirono, il 3 giugno 1991, a causa di una colata piroclastica durante l’eruzione del Monte Unzen in Giappone. Ci sono voluti trent’anni per consegnare queste due figure leggendarie nello spazio forse più adatto per omaggiarli senza retorica: il cinema.
Con Fire of Love, Sara Dosa, regista e produttrice (all’attivo The Seer and the Unseen, altra riflessione sulla natura), ha trovato proprio in quel prezioso archivio l’intuizione felicissima: il cinema. I Krafft, documentaristi immersivi con sguardo scientifico e dunque protagonisti del loro stesso lavoro, lo stavano già facendo, lo stavano già vivendo. Dosa ha preso quei filmati, ha recuperato appunti e lettere della coppia, ha schivato la trappola agiografica scegliendo di tessere un ritratto che parte dalle voci in prima persona e si riverbera nello spirito libero, nel ritmo sincopato, nella vitalità di un racconto impetuoso e romantico.
Katia Krafft wearing aluminized suit standing near lava burst at Krafla Volcano, Iceland. (Credit: Image'Est)Fino all’ultimo respiro, per citare una referenza magari ideale e che mette accanto Fire of Love alla forma infranta e all’impeto sovversivo della nouvelle vague. Chiedendo alla realtà di essere ripensata ed esaltata in sede di scrittura e di montaggio, il documentario di Dosa usa la seducente pratica del found footage per recuperare una certa idea di cinema della meraviglia e della scoperta molto in voga negli anni Cinquanta (dalle esplorazioni sottomarine alle avventure ad alta quota o calate nella natura) e la riscatta tanto dal didascalismo delle immagini quanto dalla monotonia del resoconto, consapevole che, in un’epoca completamente diversa da quella di un Jacques Cousteau o di un Folco Quilici, più dell’accesso a immagini e esperienze – ormai diffusissime, alla portata di tutti, restituite ad altissima definizione quasi appaltando l’emozione data dall’azione allo stupore dell’atto del filmare in sé – conta la modalità del racconto, il contenuto più della forma, una chiave d’accesso che sia originale perché coinvolgente, empatica, stimolante.
Dosa capisce che il cuore del racconto è proprio la storia d’amore – e il titolo, suggestivo e struggente, sta lì a dimostrarlo – dove per amore si intende quello reciproco tra i coniugi e quello condiviso verso la sostanza di cui era fatto il loro sogno, umano e professionale. E ci fa vedere, anzi sentire, quanto fossero incandescenti le fiamme negli occhi di Katia e Maurice, che questo film ci restituisce nel loro quotidiano straordinario. Presentato prima al Sundance (dove ha vinto il Jonathan Oppenheim Award per il montaggio) e poi al 70° Trento Film Festival, in sala grazie a Academy Two.