Eleonora e Valerio. Osteopata precaria lei, agente immobiliare lui. Si sono appena sposati, la festa di nozze è finita, ma i guai e le incomprensioni stanno solo per iniziare. Nella love suite del Grand Hotel con vista mozzafiato su Roma, la neo-sposa sfila dal giacchetto del marito un anello regalatogli da Ester, storica fidanzata di Valerio che non ha ancora metabolizzato la fine della relazione. Tanto basta per mandare in crisi la sposa e trascinare il marito in una sarabanda notturna per le strade della Capitale alla ricerca di verità, rivelazioni e conferme.

Tre anni fa al Taormina Film Festival, tra gli altri, fu presentato Honeymood, brillante commedia matrimoniale della regista Talya Lavie; il suo sequel tra il Ghetto, il Centro storico e Testaccio firmato da Riccardo Antonaroli (La svolta e Cani di razza nel curriculum) compie ora lo stesso percorso festivaliero, in attesa dell’uscita in sala prevista il 29 agosto.

Commedia romantica dei caratteri più che dell’interiorità e dell’ambascia dei due protagonisti, nel complesso rimane in superficie, difetta di una certa radicalità espressiva, di una drammatizzazione delle fragilità, di un’accuratezza dialogica e di un’approfondimento psicologico degno di nota. La diversità, le titubanze, i dubbi, il precariato morale ed esistenziale dei protagonisti, come di tutta una generazione in attesa di stabilità e risposte, rimane in fondo abbozzato, oltre che azzoppato da un finale più che prevedibile.  

Così, data l’anemia intrinseca del soggetto firmato da Roberto Campanelli, Giulia Martinez e Susanna Paratore, la timidezza nella resa del tema (i dubbi che si spalancano davanti alla vita matrimoniale), l’evanescenza delle atmosfere notturne, l’impressione è che questa rom-com da sampietrino, nell’opinabile compressione narrativa (perché l’ex di Valerio deve svuotare la casa proprio la notte di nozze?) sia tenuta a galla dalla varia, ma non inedita cifra recitativa del cast.

Per uno Scicchitano che conferma il secondo ruolo consecutivo da innamorato preda di dubbi e tentazioni (anche nel 2023 in Cattiva coscienza era pronto a sposarsi e a ripensarci) c’è una deambulante Pilar Fogliati, abito da sposa e Adidas rosse ai piedi, che ripropone l’oliata verve comica tra isterismi, titubanze e tenerezze.

Ma sono i comprimari a farsi apprezzare: su tutte Valeria Biello in versione giallista seduttrice, come Francesco Pannofino greve tassinaro juventino, ma strappa qualche risata anche Lucia Ocone, fin troppo premurosa madre del giovane ammogliato, senza dimenticare Armando De Razza cameriere amante degli elenchi.

Anche da ciò si evince come a Finché notte non ci separi, nonostante la classica unità di tempo luogo e azione, manchi una certa compattezza drammaturgia, oltre che fluidità discorsiva. Prevale invece lo scatto breve, la reiterazione dell’imprevisto, la complicazione a tappe, l’andamento episodico rinverdito a livello narrativo dai comprimari spinti verso il macchiettismo che incontrano i due innamorati nelle loro sospirate deambulazioni.

Pilar Fogliati in Finché notte non ci separi. Credits: Francesco Marino
Pilar Fogliati in Finché notte non ci separi. Credits: Francesco Marino
Pilar Fogliati in Finché notte non ci separi. Credits: Francesco Marino

Anche la Roma “notturna, misteriosa, folle e a tratti onirica” – come si legge nei materiali stampa – catturata dalla fotografia di Federico Annichiarico stenta ad emergere. Rivediamo, invece, la cinematografatissima Capitale da cartolina, svuotata e scontata, raramente intonata con le peripezie dei due protagonisti, se non nelle apprezzabili marce, per contrasto tra purezza e degrado, di una Fogliati in preda ai dubbi tra Trastevere e Testaccio.