Un uomo, un cane, un robot. In un futuro post-apocalittico, l’ingegnere robotico Finch (Tom Hanks) costruisce un androide, che sceglierà di chiamarsi Jeff (Caleb Landry Jones), affinché possa prendersi cura del suo amato quattrozampe, Goodyear, una volta che lui non ci sarà più: invero, ha i giorni contati. Disponibile su Apple TV dal 5 novembre, è Finch, diretto da Miguel Sapochnik (Game of Thrones, True Detective), scritto da Craig Luck e il veterano Ivor Powell, che ha in carnet 2001, Blade Runner e Alien, prodotto da Robert Zemeckis (executive producer) e dalla Amblin di Steven Spielberg.

Tanti nomi per nulla: Finch è derivativo che più derivativo non si può. Pensate a un film di fantascienza, e lo ritroverete a mo’ di tessera inq uesto mosaico prevedibile perché appunto già visto: da Io sono leggenda, alla voce uomo con cane, a Io, robot; da A.I. a Pinocchio, della serie apprendimento e burattini; da The Road a Distric 9; da Ritorno al futuro a E.T., per i mostri sacri alla produzione.

Tom Hanks fa il possibile, in termini di empatia, ma la sua parabola laica e terminale ha salti di sceneggiatura, apnee da compendio di genere, appunto, amnesie enciclopediche e ritmo brachicardico. Insomma, non si salva nessuno, malgrado un epilogo diverso, soprattutto non ci salviamo noi, dagli spiegoni e dai predicozzi del nostro superstite.

“Non si tratta solo di immaginare le cose, ma di viverle”, intima Finch a Jeff circa la bellezza del Golden Gate Bridge, pur confessando di non esserci mai stato sul ponte, onde per cui “gli umani sono pieni di contraddizioni”: capito, sì?

Insomma, l’educazione sentimentale del robot è zeppa di supercazzole, la radioattività invasiva, la nostra pazienza limitata: una Via Crucis per lo spettatore. E la croce al poro Hanks, che nel passaggio alla Mela (Finch dopo Greyhound del 2020) s’è scoperto bruco.