È incredibile – se non esaltante e a tratti perfino commovente – come, a quasi 87 anni (li compie il 30 ottobre), Claude Lelouch continui a riporre una fiducia così radicata nei confronti del cinema. E come il cinema, in un’opera così prolifica e al contempo un po’ sottovalutata, si configuri mezzo elettivo e fine ineluttabile per mettere ordine al mondo, giocare con la vita, fare a nascondino con la finzione, fare pace con la realtà. Del venerato maestro – categoria alla quale appartiene, non fosse altro per l’anagrafe – Lelouch ha tutti i crismi: grandi successi alle spalle, premi internazionali e incassi notevoli nella fase di massimo splendore, la spericolata tendenza a sfidare convenzioni e stilemi, la spudorata convinzione che le aspettative stiano tale perché devono essere sovvertite, la capacità di lavorare con i cliché dicendo sempre qualcosa di personale.

Lo sappiamo, l’ha detto, Finalement – presentato Fuori Concorso a Venezia 81, dove il maestro ha ricevuto il premio Cartier Glory to the Filmmaker – è il secondo capitolo di una trilogia con cui sta dicendo addio alla regia (almeno così dice, poi si vedrà). Ed è, inevitabilmente, una summa più che un bilancio di tutta una vita, il cinema che si infiltra nella realtà e la realtà che non può fare a meno del cinema, un testo aperto in cui confluiscono immagini, suggestioni, citazioni, suoni insomma ricordi di una carriera sessantennale.

La storia si configura quantomai come palinsesto emotivo, l’andirivieni tra ragione e sentimento è incessante, l’oscillazione tra raziocinio e follia disorienta, la leggerezza è un metodo che non si costruisce a tavolino. Lino Massaro (Kad Merad), potente principe del foro (“La vita avrebbe bisogno di un avvocato”) che dopo un problema di salute perde l’equilibrio mentale e inizia ad avere un comportamento ingestibile, porta nell’onomastica il segno dell’omaggio, autobiografico ancorché collettivo: così si chiamava uno dei protagonisti de L’avventura è l’avventura, il personaggio di Lino Ventura per l’appunto, che con Lelouch ha lavorato anche in Una donna e una canaglia, dove divideva lo schermo con Françoise Fabian, qui madre di Lino.

La novantenne Fabian, sempre splendida, è la presenza epifanica che definisce in modo addirittura inappellabile la vertigine di questo cinema autoriflessivo e mai autocompiaciuto, ammiccante ancorché originale, audace e volutamente sfuggente nel definire i confini tra ciò che è vero o plausibile e quel che può accadere solo sul grande schermo.

E così quei due film mitici diventano parti attive del racconto, repertorio personale dei personaggi, capolavori che si riposizionano nell’immaginario interno come frammenti di home movies (o di memorie) che ci servono da un lato per comprendere la genealogia emotiva dei personaggi e dall’altro per leggere Finalement dentro un discorso più ampio, stratificato, profondo. È un po’ lo stesso meccanismo de I migliori anni della nostra vita, dove un uomo e una donna ovvero Anouk Aimée e Jean-Louis Trintignant ricostruiscono la storia di tutte le storie d’amore nella consapevolezza di essere non solo dei personaggi ma anche delle icone.

A volerla sintetizzare, la trama di Finalement dice tutto e niente, il che permette di capire quanto il cinema di Lelouch, orizzontale per la sensibilità popolare e verticale per l’autorevolezza dello sguardo, sia arrivato a un punto in cui può astenersi dall’incasellare, rinunciare al dovere didascalico, pretendere che le linee procedano in modo retto anziché curvando.

Come già nei suoi ultimi film, Lelouch prende per mano le presenze care del suo cinema, che siano quelle che hanno camminato a lungo con lui (Aimée e Trintignant o Johnny Hallyday, la stessa Fabian) o le più recenti (Sandrine Bonnaire, Elsa Zylberstein, Michel Boujenah, Clementina Célarié), e le accompagna in un gioco in cui riannodare i fili per slegarli un attimo dopo, trovando ancora una volta nella musica la chiave d’accesso per dare un senso all’incomprensibile. La folie des sentiments, appunto, come recita il sottotitolo iniziale poi messo da parte, come una delle canzoni che intona Barbara Pravi, che porta il film nel musical: che piacere, che levità, che spessore.