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Vanessa Scalera e Massimiliano Gallo in Filumena Marturano (credits: Cristina Di Paolo Antonio)
È un classico davvero largo e popolare, Filumena Marturano, non solo perché è riuscito a incastonarsi nella memoria collettiva grazie alle sue cicliche trasposizioni tra teatro e audiovisivo, ma anche per la sua capacità di rigenerarsi attraverso il dialogo con il pubblico. D’altronde, un capolavoro è tale anche per come riesce a vivere al di là delle contingenze contemporanee, evitando il rischio di ridursi a mera esperienza fossilizzata.
È un testo vivo, quello di Eduardo De Filippo, che Francesco Amato (anche sceneggiatore con Massimo Gaudioso e Filippo Gili) ha rimesso in scena con una fedeltà antica, quasi anacronistica in un mondo abituato a tradurre con le regole del tradimento, ma con una progettualità forte e radicata nella tradizione proiettata al futuro, orgogliosamente dalla parte della storia, delle sue atmosfere e dei suoi umori.
Tutto sommato, sarà anche per la struttura di ferro, il carisma della protagonista, la micidiale malinconia, la questione sociale che si riflette nei rapporti tra i personaggi, è difficile trovare un adattamento insoddisfacente di Filumena Marturano. Il più celebre, l’amatissimo Matrimonio all’italiana, è anche il meno fedele (Eduardo serenamente lo disconobbe, Vittorio De Sica, che lo diresse, ne lamentava i troppi cedimenti al cinema di consumo), veicolo divistico per Sophia Loren che ne ha fatto cavallo di battaglia portandovi dentro il dolore e il furore di una vita.
Dopo Titina per cui la commedia fu scritta, forse colei che meglio è riuscita a incarnare l’idea eduardiana di Filumena è Regina Bianchi, che la interpretò proprio accanto all’autore-coprotagonista raccogliendo le lodi dell’originaria protagonista. Per la sua Filumena, Amato ha scelto Vanessa Scalera, che si distacca dall’immagine più iconica di Sophia Loren e si riallaccia all’ombrosa inquietudine e alla popolare solennità di Regina Bianchi.
È un modo per tornare all’osso del testo, scavando nelle ferite mai rimarginate di una donna devastata dall’amarezza, una scelta che fa riaffiorare quella dimensione politica che c’era nel melodramma di Eduardo e forse un po’ si è persa nei vari adattamenti (la sottoproletaria sfruttata dall’altoborghese, il potere che cerca di gabbare l’analfabeta, le emozioni contro i calcoli).
Scalera è magnifica perché ha una potenza tale che tutto il film le va dietro, con il suo stare nel qui e ora del presente storico, con l’intelligenza investita nell’esaltare le scene madri: facile restare a bocca aperta di fronte al sempre straziante monologo della Madonna delle Rose, meno prevedibile l’asciuttezza del momento in cui Filumena si finge moribonda per farsi sposare, il che definisce bene i parametri di un’attrice che sa restare ai confini dell’istrionismo.
E le va dietro Massimiliano Gallo, impeccabile, che non è solo il suo partner naturale, ma sa conferire a Domenico Soriano un’antica e strafottente eleganza, un’ipocrisia venata di insolenza, una piccineria tipica di chi è aduso all’amplificazione di sé. Amato (che ha diretto i due nella serie Imma Tataranni) sfrutta al meglio la chimica della coppia e attorno a questo rapporto, di cui sa far percepire il peso del tempo perduto, costruisce un mélo di profonda e struggente malinconia, in grado di mettere in connessione l’anima ancestrale della città con le sue verticalizzazioni benestanti.
Dalla sua ha anche ineccepibili valori formali, in primis la fotografia di Gherardo Gossi, le scenografie di Luigi Bisceglia e i costumi di Paola Marchesin, nonché l’ottimo cast con la solita infallibile Nunzia Schiano in prima linea. C’è una sortita marittima inedita che quasi commuove.