Truman, lei che belva si sente? La faida tra lo scrittore di A sangue freddo e le ricche socialite newyorkesi nel nuovo capitolo della serie antologica: feroce, malinconica, teorica. Su Disney+
È il quinto episodio a dirci molto, se non tutto, di Feud: Capote vs. The Swans, secondo capitolo della serie antologica creata da Ryan Murphy, Jaffe Cohen e Michael Zam, stavolta dedicata alla faida tra Truman Capote e i “Cigni”, le ricche socialite newyorkesi che avevano accolto l’autore di
Colazione da Tiffany e
A sangue freddo nell’inner circle mondano. A differenza della magnifica prima stagione, incentrata sulla feroce rivalità tra Bette Davis e Joan Crawford sul set di
Che fine ha fatto Baby Jane?, lo scontro qui rievocato è meno popolare e più legato alla cultura americana, tant’è che tra le due produzioni sono trascorsi sette anni e alla vicenda in questione si è arrivati dopo aver accantonato l’iniziale progetto su Carlo d’Inghilterra e Diana. Che, insomma, a parte la supremazia (territoriale e non solo) di
The Crown, è un conflitto piuttosto risaputo e che peraltro deve sempre fare i conti con le narrazioni dei tabloid e la permanenza dei personaggi nell’immaginario.
Nel raccontare, invece, la lite tra l’acclamato scrittore e le belve d’alto bordo, l’autore Jon Robin Baitz (già creatore di
Brothers & Sisters, finalista al Premio Pullitzer per la drammaturgia) si è mosso con più libertà, appoggiandosi sul libro
Capote’s Women: A True Story of Love, Betrayal, and a Swan Song for an Era di Laurence Leamer ma giocando con piani temporali, livelli narrativi, suggestioni oniriche. E il quinto episodio ne è, appunto, una summa.
È ambientato nel 1975, all’indomani dell’articolo
La Côte Basque 1965, pubblicato su
Esquire (“antipasto” di
Preghiere esaudite, il romanzo-memoir ispirato alla
Recherche: oggi ne conosciamo solo un frammento, edito postumo, poiché del manoscritto completo al momento non c’è traccia), in cui lo scrittore (strepitoso Tom Hollander, sempre attento a non scadere nella macchietta e supremamente gigione nel cavalcare l’istrionismo e la tragicità) rivelò vizi privati e pubbliche virtù delle sue confidenti che, nonostante gli pseudonimi, non fecero fatica a riconoscersi, a imbestialirsi e a vendicarsi, emarginando l’antico amico dai salotti buoni. Capote è scoraggiato, tenta il suicidio, finché si imbatte in James Baldwin: lo scrittore afroamericano, anche lui omosessuale, gli offre supporto emotivo, lo invita alla sobrietà, discute con il collega sul comportamento dei cigni selvatici, ascolta rivelazioni rimaste fuori dall’articolo.
È una conversazione teorica su razzismo, sessismo, classismo negli Stati Uniti in cui i due convengono sul fatto di essere entrambi oggetti a uso e consumo dell’high society wasp: “I negri per sgobbare, i gay per intrattenere, le donne da ammirare”. L’episodio si conclude con Capote che si rende conto di aver sognato l’incontro con Baldwin, torna a scrivere il libro e banchetta infine con un cigno arrosto.
Ora, sappiamo che i rapporti tra i due scrittori non erano esattamente idilliaci e che la proiezione onirica funziona come escamotage, ma il cuore di
Feud è tutto qui: la restituzione di un tempo, di un personaggio, di un evento non passa attraverso la sua ricostruzione scrupolosa ma si esalta nella mediazione tra dato biografico e reinvenzione narrativa. Come nel primo
Feud, dove Davis e Crawford erano anzitutto due icone putrefatte che lottano tra loro per sopravvivere in un sistema hollywoodiano ormai incapace di assorbirle senza rigetto, anche qui la dimensione fantasmatica è chiara, esplicitata da un finale sfacciatamente terminale (si chiude nel 2015, senza i protagonisti in carne e ossa) in cui i Cigni sono ridotti a spettri di una golden age sepolta sotto le macerie del Novecento: la società della chiacchiera è diventata l’epoca del cinguettio, l’arbiter elegantiarum ha ceduto il passo all’influencer al servizio del brand, la letteratura non è più un’arma contro le élite ma ha perso la centralità nel discorso pubblico.
Eppure
Feud non è nostalgica, non pensa affatto che si stava meglio prima: l’aristocrazia clannica è rimasta tale (anzi, il capitalismo si è così inasprito che si è perfino radicalizzata), i Cigni esistono ancora così come permangono i loro metodi di annessione e ostracismo e magari le “minoranze” non sono più curiosità esotiche ma nei salotti continuano a occupare un ruolo “marginale” e funzionale ai potenti. È qui che si intravede lo sguardo politico di Gus Van Sant, regista di sei episodi su otto ad eccezione del quinto con Baldwin appaltato a Max Winkler e del settimo diretto da Jennifer Lynch: se il dialogo tra le immagini è sapiente per uso delle luci e posizionamento dei corpi (si veda il confronto tra le due feste del Ringraziamento, l’una severa e l’altra decadente), il terzo è una chicca, un finto documentario in bianco e nero che omaggia
With Love from Truman di Albert e David Maysles, in cui c’è l’eco sperimentale di
Psycho e la capacità – rara nella serialità televisiva – di imporre la regia pura sulla scrittura.
Del precedente in gloria di Bette e Joan preserva la tenerezza nei confronti delle fragilità (non a caso Jessica Lange, feticcio di Murphy e già interprete di Crawford, è qui il fantasma della madre di Capote, il
cigno nero le cui apparizioni edificano l’origin story della star letteraria), il rifiuto del manicheismo nonostante gli atteggiamenti crudelmente schematici delle parti in causa, la sapiente commistione tra linearità cronologica e acrobazie tra passato e presente, cronaca e finzione. Ha una confezione elegantissima,
la malinconica
Feud, e non di rado coltiva il piacere del racconto: dilata (troppo) per il gusto della parentesi, procede per accumulo di domande, è attento al centone mondano dunque umano. Sontuoso il défilé femminile con Diane Lane, Chloë Sevigny, Demi Moore, Calista Flockhart fino a Naomi Watts, struggente nel dare vita al rancore, al dolore, alla passione di un’innamorata senza speranze.