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Una scena di Family Game
Cinema italiano e famiglia, connubio di lungo corso. Con una possibile filogenesi per immagini: dai quadri desolati e patriarcali del neorelismo passando per i mutamenti di pelle nella commedia anni '50-'60 (quelli scanzonati e cicaloni del boom), fino alla crisi stigmatizzata dai vari Maselli (Gli indifferenti), Bellocchio (I pugni in tasca) e Pasolini (Teorema). I registi italiani hanno un debole per la famiglia, la mettono in scena, ne precorrono umori e trasformazioni. Il movente è a volte testimoniale, spesso iconoclasta, non di rado nostalgico. Per non sbagliare, Alfredo Arciero in Family game li assume tutti e tre, con cortocircuiti drammaturgici e derive (involontarie?) nel kitsch. Sin dalla location, un interno casa Mulino Bianco; proseguendo poi con il bimbo autistico che simula ai "Sims" il proprio habitat familiare fatto di frustrazioni, segreti e rabbie represse. Nell'ordine: padre psicotico e imbroglione (Stefano Dionisi), madre abulica (Sandra Ceccarelli), sorellina omosex (Elena Bouryka), zio ex tossico (Fabio Troiano) e nonno sergente di ferro. Inutile dire che le tensioni esploderanno, per ricomporsi nel più strampalato happy end degli ultimi anni: un finale che, senza risolvere nulla, lascia tutti felici e contenti. Nel frullatore afasie da lessico familiare, predicozzi sulla realtà virtuale e sensazionalismi in carta pecorita, un cocktail che si preannuncia forte ma si beve lungo. Causa una regia monocorde e compilativa, che giustappone (senza farsene carico) bugie domestiche e ansie borghesi, retrobottega televisivi e rotocalchi rosa. E se gli sceneggiatori di Centovetrine gridano vendetta, gli attori prenotano Un posto al sole...