È il film più premiato di Venezia 81: migliore opera prima, miglior regia e miglior interpretazione femminile. Non era in gara per il Leone d'Oro, ma in Orizzonti.

E la riflessione sul posizionamento di Familiar Touch nella selezione di quest'anno viene quasi spontaneo: diretto dall'esordiente Sarah Friedland, non sarebbe stato meglio inserirlo nel concorso principale (su 21 titoli, 0 opere prime...), azzardando una scelta che da molto manca alle latitudini della Mostra (Alice Diop che nel 2022 vinse il Leone del Futuro con Saint Omer era al primo film di finzione sì, ma dopo aver realizzato molti documentari, Maggie Gyllenhaal nel 2021 esordiva con La figlia oscura, ma era pur sempre un'attrice rinomata), dal 2019 di fatto, con il non memorabile Babyteeth dell'australiana Shannon Murphy?

La sensazione è che Familiar Touch avrebbe potuto bissare il sensazionale exploit del francese Xavier Legrand, che nel 2017 con L'affido - Una storia di violenza vinse sia il Leone del Futuro che il Leone d'Argento per la regia. Soprattutto in un concorso come quello di quest'anno, a dir poco ondivago, con pochi picchi e con due opere seconde finite in palmares (Vermiglio di Maura Delpero, April di Dea Kulumbegashvili), guarda caso entrambe dirette da registe donne.

Dopo questo lungo preambolo (e senza dimenticare che resta comunque il merito di aver selezionato l'opera, a prescindere dalla sua collocazione), veniamo al film di Sarah Friedland, losangelina classe 1992, regista e coreografa dalla personalità non indifferente (sul palco della Mostra è stata la prima tra i premiati a sollevare la questione del genocidio a Gaza, lei ebrea statunitense...), che inizia a scrivere Familiar Touch all'indomani della morte della nonna (che aveva vissuto per molti anni con la demenza senile) e dopo l'esperienza diretta di qualche anno fa (come badante per artisti newyorkesi con problemi di memoria): la storia è quella di Ruth Goldman (Kathleen Chalfant, strepitosa), ottantenne che si appresta a trascorrere l'ultima fase della propria esistenza all'interno di una casa di cura.

Meno radicale di The Father (capolavoro di Florian Zeller che affrontava la tematica Alzheimer facendoci letteralmente entrare nella mente in disfacimento del suo protagonista, Anthony Hopkins), il film di Sarah Friedland (realizzato all'interno di Villa Gardens, una comunità di pensionati con assistenza permanente in California, che hanno partecipato sia come cast che come troupe) affronta la questione da un punto di vista che è altrettanto sorprendente: quello di una transizione che è prossima ai canoni del romanzo di formazione, muovendosi sul delicato crinale della percezione di sé e del mondo circostante.

Familiar Touch
Familiar Touch

Familiar Touch

(Armchair Poetics)

È così che Ruth - un passato da cuoca sopraffina, scopriremo strada facendo - dimentica spesso che Steve sia suo figlio ma ricorda a menadito la ricetta del borsht (la variante yiddish della minestra di origine ucraina, boršč), incomincia poco a poco ad inserirsi in questo nuovo contesto, alla stessa maniera in cui un bambino incomincia a familiarizzare con i nuovi compagni di classe, o con gli insegnanti di una scuola.

Ma è un processo fatto di oscillazioni, di costruzione della fiducia reciproca (con l'infermiera Vanessa, con il dottore che ciclicamente la sottopone a vari test), processo durante il quale la protagonista accetta e rifiuta i ruoli che le vengono imposti (madre, vecchia signora, paziente), mantenendo però sempre la traccia di un sé che la definisce in quanto Ruth, a prescindere dall'età, a prescindere dal momento.

Ecco, quel "familiar touch" a cui fa riferimento il bellissimo titolo del film, è dunque riferibile tanto all'essenza, alla gestualità, alle coreografie che il corpo ormai anziano di Ruth continua comunque a disegnare in traiettorie visibili e invisibili (la meravigliosa sequenza con i visori per la realtà aumentata, o la delicatezza di quel momento sospeso a galla nella piscina), quanto al contatto, al linguaggio fisico dell'assistenza, dell'amore che attraverso uno sguardo, un "tocco" (quell'abbraccio madre-figlio nel ballo finale), può colmare qualsiasi vuoto. Di spazio, e di memoria.