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Fairytale
"Hai strozzato Satana, portatore di passione, con le corde divine della tua sofferenza".
Si apre con il passo di un vangelo apocrifo l'ultimo film di Aleksandr Sokurov, Fairytale, fiaba allegorica e sperimentale in cui il regista russo lascia peregrinare i potenti del secolo scorso, Hitler, Stalin, Mussolini, Churchill, in un purgatorio abitato dal flusso incostante di masse vocianti e indistinte.
Attendono impazienti che si apra loro la porta del cielo, dietro la quale ad un certo punto fa capolino anche Napoleone, mentre dapprima anche la figura dolorante di un Cristo disteso avverte di essere anch’egli in fila, “come tutti”.
Contenuto nella durata, il film di Sokurov - passato allo scorso Festival di Locarno e, in questi giorni, al 40° Torino Film Festival - è divertita e al tempo stesso inquietante sintesi di una filmografia contrappuntata spesso e volentieri dall’affresco del potere e dei potenti (Sole, Moloch, Taurus), ma soprattutto dal rapporto tra l’anelito del potere terreno e quello divino (Faust): in Fairytale Sokurov dimostra quanto il mezzo canonico, quello della rappresentazione e della narrazione, debbano necessariamente passare per la manipolazione sperimentale: i suoi attanti - ai quali danno voce Alexander Sagabashi, Fabio Mastrangelo, Lothar Deeg, Pascal Slivansky, Tim Ettelt, Vakhtang Kuchava - sono nulla più che i reali tiranni restituiti sullo schermo attraverso una sorta di deepfake che finisce anche per duplicarne, triplicarne le fattezze a seconda degli stati d’animo e degli umori.
Si procede per elucubrazioni inventate mescolate a citazioni reali (il discorso alla nazione di Churchill), sullo sfondo di una rappresentazione animata e in bianco e nero che naturalmente è debitrice dei vari Piranesi, Goya o Doré per quello che riguarda lo spirito dantesco di una Commedia che di “divino” ha ormai davvero ben poco: all’inizio e verso la fine tuoni e fulmini squarciano il velo di un’apocalisse già avvenuta e al tempo stesso imminente, la fiaba a cui assistiamo è ambientata giocoforza in un mondo ormai finito dove l’eternità di figure passate alla storia ma condannate alla replicabilità, alla clonazione, pretendono ancora di governare sul caos di un’umanità consunta e indistinguibile.
Emerge a volte qualche sfocato volto dal tutto, un soldato ferito, la moglie di un altro in attesa, ma è la spinta di un’inerzia che finisce comunque soffocata dall’inesorabile ghigno della Storia, sospesa in eterno ad attendere l’ascesa in paradiso o la calata all’inferno. In attesa di giudizio i quattro personaggi parlano, litigano, scherzano e i loro discorsi si accavallano in una babele di lingue e di declinazioni del potere.
Per certi versi sembra quasi di trovarsi in un’impossibile fusione tra l’insostenibile e meraviglioso caos dell’Hard to be God di Aleksej German e le irresistibili sperimentazioni del polacco Rybczyński, che soprattutto nel seminale Steps (1987) immaginava un gruppetto di turisti americani guidati da un funzionario sovietico all’interno della scena topica della Corazzata Potëmkin, sulla scalinata di Odessa, omaggiando e al tempo stesso “distruggendo” il totem eisensteiniano: in maniera meno strabordante, rimanendo quasi a distanza, Sokurov fa lo stesso con quello che rimane del potere, la proiezione fantasmatica di un’illusione eterna e replicabile, destinata invece a sfaldarsi nell’opacità di un’immagine intangibile e fumosa.
E anche quella giostrina finisce per sfaldarsi sotto gli occhi dei despoti logorroici.