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Una scena di
Factory Girl
"Warhol cercava la sua musa, Edie lo divenne per soli 15 minuti". E' il claim di Factory Girl, e concordiamo appieno. Ma c'è un problema: 15 minuti di celebrità giustificano 91 minuti di biopic? Risposta negativa. Almeno per la Edie Sedgwick che esce dalla biografia audiovisiva di Hickenlooper (già apprezzato per il making of di Apocalypse Now, Viaggio all'inferno, e per il "biodoc" su Rodney Bingenheimer, Mayor of the Sunset Strip): una starlette senza arte né parte, scema se non ingenua, passiva e stolida, cortigiana asessuata più che musa creativa. Poor Little Rich Girl Edie, che abbandona la natia Santa Barbara, un padre molestatore e due fratelli morti, per recarsi nel sottobosco underground di New York a metà anni '60, dove incontra Warhol, recita nei suoi film e ne diviene la Superstar, fino all'arrivo di Ingrid. A farla cadere in disgrazia presso il guru della Pop Art sarà Bob Dylan. Fatto mai documentato, nei credits il menestrello - nel film in versione snob - è indicato quale "folker": Dylan ha chiesto e ottenuto l'eliminazione di ogni riferimento alla sua persona, non ha concesso brani per lo score, e l'attore che lo interpreta, Hayden "Skywalker" Christensen, somiglia più a Tim Buckley. Poco male, anzi malissimo: questa suggestione fluttuante, ovvero debolissima, toglie ulteriore verve e interesse a una storia che è già finita prima ancora di iniziare. Non bastano a dar brio una Miller richiamata dalla produzione, che l'aveva scartata, dopo il clamore mediatico per la sua rottura con Jude Law - non disprezzabile, soprattutto quando poco vestita, e Guy Pearce, protagonista di metamorfosi e mimesi straordinarie per dare volto macchiato, movenze, tic e cadenza (in versione originale) a Warhol, con un'interpretazione che rivaleggia in bravura con il Truman Capote di Philip Seymour Hoffman (A sangue freddo) e Toby Jones (Infamous).
Per la recensione completa leggi il numero di dicembre della Rivista del Cinematografo