PHOTO
Quando si riflette sulla Storia, di qualsivoglia epoca, si tende a considerare i fatti piuttosto che soffermarsi ed empatrzzare con le conseguenze che questi hanno avuto su chi li ha vissuti, o meglio, subiti. Il cinema, inteso come mezzo esplicativo, ha spesso cercato di mettere in atto una sorta di rovesciamento gerarchico dell’assioma causa-effetto, dedicandosi ad esplorare le ripercussioni implicite e la posteriorità degli eventi storici. Fabian - going to the dogs, l’ultima opera di Dominik Graf, incarna questo funzionamento.
Presentato in concorso all’ultima Berlinale (2021, il film, distribuito nelle sale italiane da PFA Films insieme RS Productions, si inserisce nel nutrito filone dedicato a quel secolo breve postulato da Hobsbawm, scegliendo di concentrarsi sul transitorio lasso di tempo intercorso tra i due conflitti mondiali, mettendone soprattutto in luce la gravosa portata emotiva.
Nella Berlino anni Trenta, tra Kabarett invasi da borghesi benpensanti che si divertivano smaliziati e le strade affollate dalla prime avvisaglie naziste, Jakob Fabian (Tom Schilling) è un brillante ed inconsapevole scrittore che di giorno lavora nel dipartimento pubblicitario di una fabbrica di sigarette e di notte trascorre le proprie serate tra atelier di artisti e disinibiti bordelli con il suo facoltoso amico Labude (Albrecht Schuch). Solo quando si innamorerà di Cornelia (Saskia Rosendahl), aspirante attrice dai lineamenti gentili, Fabian riuscirà ad accantonare la visione nichilista del mondo. Nuova condizione che, ahimè, durerà poco: il decadimento dell'epoca e il disincanto che ne scaturisce concorreranno ad una serie di sfortunati eventi e a più di un tragico epilogo.
A fare da sfondo alla sinossi, il contesto sociale e politico di Berlino, miniatura rappresentativa della Nazione, tormentata dal passato e angosciata da un futuro apparentemente luminoso, ma plumbeo nella realtà. Gli strascichi nefasti della Prima Guerra Mondiale, la crisi economica aggravata dai debiti bellici e lo smembramento della morale ormai derisa e distrutta in decadenti case di lusso e chiassosi locali notturni, come noto, determinarono l’ascesa vertiginosa al nazionalsocialismo e al rabbioso desiderio di ritornare alla passata grandezza e al rigore etico di una società che “non ha tempo per gli angeli”.
Prigionieri della città in declino e degli impedimenti che ne conseguono, Fabian, il suo amico e Cornelia, sono ognuno a suo modo esemplari dell’impotenza giovanile di opporsi al potere, più stupido che illuminato: dall'artista disilluso che cerca in tutti modi di non compromettersi all’immoralità cieca e maligna, allo studioso aggrappato ad incipienti ideali politici e professionali, fino all’attrice che riesce a farcela solamente usando la propria femminilità a scapito di tutto il resto.
Tutti e tre insieme suppliscono perfettamente la frase idiomatica del titolo, “going to the dogs”, ovvero “andare in rovina”, metafora della rapida discesa di una società sperduta e popolata da un’umanità insoddisfatta capace anche delle più oscure nefandezze e in cui ci si domanda implicitamente se “ci si può sentire abbastanza normali quando il mondo sta finendo intorno a te”.
Fabian - Going to the dogs è l’adattamento dell’omonimo romanzo di Erich Kästner, dal quale eredita la pluralità di argomenti messi in scena e lo stile di scrittura convulso e ricco di elementi. All’estetica del periodo, si aggiungono improvvisi tagli, agitati movimenti di macchina,l’aggiunta di filmati d’archivio e lunghi monologhi in voice-over, contribuendo sia alla determinazione di una struttura dinamica ed imprevedibile, sia a trasmettere disordine e un’affastellamento eccessivo di suggestioni.
Per una durata (eccessiva) di quasi di tre ore, infatti, tutte queste caratteristiche e l’emergere delle connotazioni più stucchevoli e lacrimevoli del melodramma, rendono il film difficile da seguire fino alla fine, avvalorando il principio di come l’abbondanza spesso non sia necessaria se il capitale umano ed argomentativo fanno la metà del lavoro.
Sicuramente una ricognizione interessante in cui si può estrapolare la volontà di Graf di tracciare una linea di continuità tra passato e presente sottolineando come, in maniera certamente meno acuta e nefasta, le insoddisfazioni che si originano da una situazione sociale e politica opprimente non siano poi così diverse.