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Kim Rossi Stuart in Everybody Loves Diamonds
Anche l’Italia ha la propria storia true crime da esportare nel mondo, una storia vera e incredibile che in mano a una piattaforma streaming può fare il giro dei 190 paesi, per dirla con Nanni Moretti.
In questo caso, alla produzione e distribuzione di Everybody Loves Diamonds, non c’è Netflix ma Prime Video, che ha deciso di puntare sul lavoro di Michele Astori e del suo team di scrittura per realizzare un Heist drama, una serie di rapina che ammicca di continuo ai modelli d’oltre oceano, sia nella forma che nella scrittura, cercando di ancorarli fortemente in Europa per farne un prodotto facilmente fruibile anche a occhi poco italiani. E così, a fronte della regia affidata in toto a Gianluca Maria Tavarelli, troviamo l’ambientazione ad Anversa, se il protagonista è Kim Rossi Stuart, l’antagonista è Johan Heldenbergh (visto recentemente in Comandante di Edoardo De Angelis) e gli interessi amorosi sono equamente divisi tra Italia (Anna Foglietta, la moglie) e il Nord Europa (Synnøve Macody Lund, l’amante, ma solo per ragioni di rapina).
Più che una vera co-produzione però, la miniserie in otto episodi è un abbozzo di collaborazione, in cui la natura italiana del progetto non si amalgama col resto e questa natura è etichettabile con una semplice parola: commedia.
Perché Astori e soci scelgono quella via per adattare la vera storia di Leonardo Notarbartolo, un torinese che per tutta la vita ha fatto il ladro e non sempre gli è andata bene, ma un giorno, mentre lavora come autista di un commerciante di diamanti ha un’illuminazione: provare a rapinare il World Diamond Center di Anversa, il più grande centro di conservazione e vendita di diamanti al mondo, quindi anche uno dei luoghi più sorvegliati. Metterà insieme la banda, il sodale Ghigo (Gianmarco Tognazzi), l’esperta di casseforti Sandra (Carlotta Antonelli), il fratello hacker Alberto (Leonardo Lidi), ma il castello di bugie e sotterfugi che i quattro costruiscono rischia di crollare a ogni passo, coinvolgendo anche i sentimenti.
La storia inizia con l’arresto di Notarbartolo, autore di quella che con buona approssimazione è davvero “la rapina del secolo”, com’è stata definita dai giornali e da lì si sposta avanti e indietro nel tempo, tra la pianificazione e l’esecuzione del colpo, la caccia alla refurtiva da parte di Mertens e il tentativo di uscire dal carcere con l’aiuto del losco avvocato Lovegrove (Rupert Everett che pare uscito da un horror di King). Il meccanismo sembra quello perfetto per una serie appassionante su un vero e incredibile furto, ovviamente molto romanzato, soprattutto per quanto riguarda le relazioni tra i personaggi e la definizione dei comprimari, ma è qui che entra in gioca quella parola che di solito è benedizione per un prodotto italiano, ma non in questo caso.
Perché aver scelto per una storia del genere il tono della risata, dell’alleggerimento, della caratterizzazione ridanciana, dando a tutto l’arco narrativo la struttura della commedia di “rimatrimonio”, penalizza l’intera miniserie: intanto perché, così facendo toglie tensione, suspense e intrigo alla costruzione del racconto della writer’s room capitanata da Astori, mostrando dei rapinatori italiani come se fossero una perenne banda del buco, come in Italia potessimo concepire solo I soliti ignoti e non Diabolik; poi, perché virarlo sul semi-farsesco mette a disagio la parte europea del cast che con questo tipo di toni non ha dimestichezza.
Il problema del cast però, e spiace molto ammetterlo, non è limitato agli attori stranieri, costretti come Heldenbergh a suonare su corde che non gli competono, ma è generalizzato a partire da un Rossi Stuart - con accento piemontese non proprio credibile - raramente così fuori parte, che si trascina dietro il resto della truppa, fatta eccezione per i più giovani del lotto, Antonelli e Lidi. Così, entrano in ballo le responsabilità della regia di Tavarelli, regista che evidentemente non è riuscito a variare i suoi registri d’elezione sulla suspense o sull’umorismo, materiali che, almeno in Everybody Loves Diamond, non riesce a padroneggiare, gli sfuggono continuamente di mano e finiscono per danneggiarsi reciprocamente.
Certo, l’impegno nel creare una serie che possa competere dal punto di vista stilistico con le grosse produzione internazionali è evidente, nella struttura temporale, nel montaggio sincopato, nella fotografia cromata e platinata, nel ritmo che prova a non perdere colpi, nei continui sguardi in camera, nelle musiche che orecchiano un (abusatissimo) incedere funky anni ’70, per poi concedersi grandi brani come About Today di The National o il celebre coro delle voci bulgare divenuto famoso nel Pipppero di Elio e le storie tese.
Un impegno che però non approda a una vera riuscita, sembrando in più di un’occasione goffo, una patina a cui nessuno credo davvero. Forse i primi a non crederci sono gli sceneggiatori, che come se fossero in debito di ossigeno nel cercare di connotare in chiave umoristica situazioni e personaggi, si lasciano andare a descrizioni, situazioni e personaggi discutibili e al contempo di grana grossa: gli equivoci matrimoniali per coprire le corna e le bugie, i battibecchi da Casa Vianello nel momento meno opportuno, le gag sulle tendenze sessuali della direttrice del Centro (l’amante dominatrice) e le battute sugli ebrei, tra misoginia e stereotipi razziali che non sembrano nemmeno concessioni alla scorrettezza politica, quanto dei facili appigli per scatenare la risata.
Everybody Loves Diamonds accumula ottime intenzioni che si sgonfiano ben presto e faticano ad arrivare al finale, denunciando soprattutto che l’internazionalità e la capacità di attrarre spettatori esteri hanno a che fare con il metodo, con l’applicazione, non sono un vestito buono per ogni stagione da rappezzare con qualche tocco trendy. Non basta parlare inglese, per suonare europei.