PHOTO
Every Day is a Holiday
Libano, al giorno d'oggi: donne su un autobus dirette a un carcere maschile. Tre sono le protagoniste: la prima (Raia Haidar) vuole incontrare il marito, recluso il giorno delle nozze; la seconda (Manal Khader) vuole che il coniuge, incarcerato da tempo, firmi le carte del divorzio; la terza (Hiam Abbass) deve riconsegnare allo sposo secondino la pistola che ha dimenticato a casa. Quando l'autista del bus viene colpito a morte, le tre si ritroveranno in mezzo al deserto, tra rumori di esplosioni e sciami di profughi, in un viaggio che combina realtà e immaginazione, incubo e sogno...
Opera prima della libanese Dima El-Horr, già passata da Toronto, Every Day is a Holiday è esplicitamente al femminile per prospettiva, ottiche, interpreti e pubblico d'elezione: lo schermo accoglie tre destini uguali e discordi, tre donne in cerca non di uomini, ma di se stesse, col deserto ad accoglierne aspirazioni e frustrazioni, aneliti e sconforto. Nel raccontare, El-Horr e il cosceneggiatore Rabih Mroué scelgono un realismo di base su cui innestare immagini, al limite del calligrafismo, dall'alto voltaggio simbolico, metaforico. Opzione forse non disprezzabile nelle intenzioni, sicuramente infelice negli esiti: sono aghi in un pagliaio che lo spettatore difficilmente si sforzerà di cercare, ovvero intendere nella loro carica social-simbolica, relegandoli viceversa a immagini-cartolina dalla dubbia efficacia. Se a Venezia Donne senza uomini dell'iraniana Shirin Neshat non ci aveva convinto, la sua "sorella libanese" scontenta ancor più: profughi, martiri, condizione femminile, guerra, tutto svanisce nel conflitto tra simbolo e realtà.