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Euforia
Euforia è la storia di due fratelli. Di un nuovo incontro, dopo che la vita li obbliga a riavvicinarsi a causa di una situazione difficile.
Uno è Matteo (Riccardo Scamarcio), giovane imprenditore di successo, affascinante, dinamico e spregiudicato. L’altro, il maggiore, è Ettore, (Valerio Mastandrea), rimasto nella natia Nepi, ad insegnare nelle scuole medie. Un uomo cauto, che per non sbagliare ha sempre preferito rimanere un passo indietro, nell’ombra.
Valeria Golino, alla sua opera seconda dopo Miele (anche stavolta ospitata in Un Certain Regard al Festival di Cannes), scrive – insieme a Francesca Marciano, Valia Santella, con la collaborazione di Walter Siti – e dirige un film narrativamente meno estremo del precedente, ma nuovamente coerente per quello che riguarda eleganza e linguaggio cinematografico.
C’è ancora una volta la morte all’orizzonte, ma quello su cui si concentra l’attrice/regista napoletana è il nuovo modo di concepire la fratellanza tra due persone fino a quel momento divise per formazione e carattere, costrette dalla vita e dalle inclinazioni ad allontanarsi e nuovamente costrette dalla vita a ricalibrare il loro legame.
Non c’è mai lo scadimento nel banale, le poche scene madri presenti nel film riescono a mantenersi credibili anche grazie alla straordinaria prova dei due protagonisti, con Scamarcio davvero sorprendente (ed è ormai una crescita che possiamo considerare definitiva, pensando anche al doppio Loro di Paolo Sorrentino) e Mastandrea compassato al punto da rendere quell’incertezza della malattia così autentica, e dolorosa.
Ma non è “semplicemente” un film doloroso, questo della Golino. E a ricordarcelo non è solamente il bellissimo (e programmatico) titolo: l’Euforia è anche nella riscoperta delle piccole cose, nel riappropriarsi di un vecchio balletto infantile che faceva il verso a Stanlio e Ollio, o nel poter rivedere, magari solo per un breve pomeriggio, la giovane donna (Jasmine Trinca, meravigliosa anche in quelle sole tre pose) di cui ti sei perdutamente innamorato ma che le “cose della vita” ti hanno suggerito di lasciare indietro.
E francamente sentiamo sia doveroso anche dimenticare quel superfluo che qui e là rischia di appesantire il flusso emotivo del racconto, perché alla fine, quello che resta davvero, è tutto in quel commovente abbraccio sotto le coreografie folli e impreviste di un meraviglioso stormo nell’azzurro del cielo romano.