C’è in Eterno visionario di Michele Placido un piccolo mondo antico suscettibile, titolo vuole, di eternità: sta nella postura morale, nell’arte che informa la vita. A tal punto, con tal sprezzo del pericolo, da voltarsi contro: “Scrivi, scrivi – Pirandello al figlio – per vendicarti di essere nato”. È con la caméra-stylo che Placido verga immagini e prosa, facendo della visionarietà la terra di mezzo, meglio, il precipitato dell’arte e della vita: non la vista, ma la trasgressione focale del tempo e dello spazio che solo la creazione forgiando l’esistenza s’arroga.

Ci vuole coraggio, persino scelleratezza, in questo intendimento poetico ad associare, pardon, a convergere parallelamente la propria, Michele Placido, all’altrui esistenza, Luigi Pirandello, e proprio contemplandone lo zenit, il fulgore del Nobel per la letteratura: il regista e sceneggiatore non si sottrae, si “copre” diegeticamente interpretandone il premuroso assistente-agente Saul Colin, ma travasa amori, tormenti – sì, è un film tormentato e tormentoso – e cadute nell’Altro – A maiuscola. Con un’esternalità metacinematografica non peregrina: come l’epifania al Teatro Valle di Sei personaggi in cerca d’autore, il pubblico potrebbe non capire, anzi, non intendere - e qui l’intesa e accentuata drammaticità, certamente al di sopra delle aspettative.

Placido sta consegnando per altri autori, per altre vette la sua biografia privata e artistica, ed è con la fattura e il mestiere del nano sulle spalle del gigante che perfeziona non il ratto del mostro sacro, non il millantato credito, ma l’irriducibilità della comune umanità, sotto le intemperie della follia muliebre, l’aggiotaggio dei figli, lo “scrivi, scrivi – leggi film, recita – che sai fare solo quello”.

C’è una dolenza sensibile, un treno che più che movimento è mozione nell’oscurità, fari al buio e destino incerto: a Stoccolma Pirandello dichiara, meglio, avoca a sé il primato della sincerità sull’invenzione, dell’humus umano sul parto artistico, del sentire sul formalizzare.

Nel cast Fabrizio Bentivoglio, che al netto di una chierica ondivaga e schematica si dà anima e cute, Valeria Bruni Tedeschi, la moglie folle Antonietta Portulano, Federica Luna Vincenti, la musa Marta Abba, i figli Giancarlo Commare, Aurora Giovinazzo e Michelangelo Placido Stefano, Lietta e Fausto, Eterno visionario s’intesta la tragedia sommessa, eppur inevasa, di un uomo mai ridicolo, che (si) volle Mattia Pascal e si trovò implacabile e infelice, attributi che restituì alla sua arte.

Dunque, Roma e Stoccolma, la Sicilia avita e terminale parimenti e la Berlino dei cabaret (Ute Lemper), Milano e l’America spettacolosa di Broadway e Hollywood, tutti tableaux vivants di un uomo votato, giammai costretto, a sopravvivere al proprio genio, con licenza, eccome, di vittime collaterali: è una performance nelle ragioni stesse della condizione umana – e dell’autorialità estensiva.

Nella manifesta tensione – non sono forse i cinquant’anni della sua confermazione, Romanzo popolare (1974) di Mario Monicelli – largamente e inclusivamente affabulatoria, Placido, che scrive con Toni Trupia e Matteo Collura, dal libro di quest’ultimo Il gioco delle parti. Vita straordinaria di Luigi Pirandello, perfeziona un atto unico indomito e compreso, sincero e irredento, che sa essere più forte della malcelate debolezze: la drammaturgia che apre alla congerie, le concessioni esemplificative e semplificatorie, le aporie recitative – perché gentile Bruni Tedeschi l’ennesima pazza? Certamente non eterno, forse visionario, di certo visibile.