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Eternal Homecoming
Intanto il luogo di nascita: nell'anno 1934, quando lei venne al mondo, Soroki era Romania, oggi è Moldavia, ma lei vive ora in Ucraina, che allora era Unione Sovietica (e la censurava molto volentieri). Biografia scarna (partecipazioni a Berlino e Cannes) quella di Kira Muratova - in Italia anche invisibile, se non sconosciuta - filmografia più che essenziale, ma da tutti e sempre ritenuta una vera autrice, piuttosto estrema. Lo è stata spesso per le immagini, questa volta è nella forma. Le storie che racconta accelerano verso un mondo surreale, bizzarri sono i comportamenti dei suoi personaggi, spesso non se ne vede nemmeno la motivazione.
Così inizia Eternal Homecoming (Eterno ritorno) in cui un uomo va a trovare un'amica e le racconta del suo duplice, profondo amore e delle sue pene ancora non perdute: per la moglie e per l'amante. Non sa cosa fare, chi scegliere, il consiglio che gli viene dato è: lascia l'amante, prendi la moglie; lui rifiuta. Allora: divorzia, lascia la moglie e prendi l'amante; lui rifiuta. Allora: fuggi e ricomincia una vita; lui rifiuta. Dice di essere incompreso. Se ne va, mentre una cantante si impegna in televisione in una insopportabile trascrizione de "La donna è mobile" dal Rigoletto verdiano.
Questo episodio dialogico occupa lo spazio di non più di cinque, otto minuti. Il film si potrebbe concludere lì, con un bianco e nero d'antan. Ma la storia non è assolutamente quella. Oltre la mezz'ora lo stesso dialogo, con qualche impercettibile variazione, viene ripetuto e ripetuto ancora, solo i due interpreti variano nella tipologia e nello stile recitativo - insieme agli ambienti, poveri, borghesi, lussuosi, anonimi - mentre le loro battute sono sostanzialmente identiche. Al quarantesimo minuto circa, l'umore volge al disperato, l'attenzione comincia a cedere, l'avversità fa capolino (e la sala comincia a svuotarsi).
Però la curiosità cresce. Una regista sempre così controllata, maniacale, che cosa vuole dal suo film e dallo spettatore? Per questo l'irrompere del colore è una sorpresa, quasi uno shock: i personaggi sono ancora due, ma sono uomini, di cui uno è un produttore squattrinato e l'altro un finanziatore sprovveduto e da spremere, seduti su due poltrone in una sala di proiezione, che guardano il film che fino allora abbiamo guardato noi, e ora sono loro che ci guardano. Giudicano i provini dei due attori, si capisce che il problema è il finanziamento.
Poi ricomincia il bianco e nero e la ripetizione della scena amico-amica-moglie-amante-incomprensione-addio, una sola nuova interruzione con l'ingresso, nella realtà colorata, di una sceneggiatrice, e alla fine la conclusione nella quale una sonora e irridente risata del produttore e di un sodale imbroglione, prelude alla sicura fregatura del malcapitato finanziatore. Che cosa succeda allo spettatore vero, è cosa troppo privata per essere descritta. Qualche applauso nello scorrere dei titoli di coda. Kira, astuta e intelligente, credeva più al bianco e nero o al colore?