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Fabrizio Gifuni è Aldo Moro in Esterno notte - Foto Anna Camerlingo
“Nessuna manifestazione pubblica o cerimonia o discorso: nessun lutto nazionale, né funerali di Stato o medaglia alla memoria. La famiglia si chiude nel silenzio e chiede silenzio. Sulla vita e sulla morte di Aldo Moro giudicherà la storia”.
Quel 9 maggio del 1978, dopo il ritrovamento del corpo senza vita di Aldo Moro in via Caetani – esattamente a metà strada tra la sede della DC e quella del PCI – la storia si era compiuta.
Ma quale storia, esattamente? E quasi cinquant’anni dopo – oggi – che cosa è rimasto ancora da conoscere, da capire, di quei 55 giorni (iniziati il 16 marzo, data del rapimento in via Fani con lo sterminio della scorta, per concludersi appunto il 9 maggio dentro quella Renault 4 rossa) che sconvolsero il paese, tra comunicati delle BR, depistaggi, tentativi da parte della Chiesa di Papa Paolo VI di risolvere la questione pagando un riscatto miliardario per liberarlo, linea del rigore della DC, di cui Moro era presidente, per tenere “un punto” – quello di non scendere a patti con i rapitori – che agli occhi dei più sembrava perdere di senso ora dopo ora?
Che sia un certo Marco Bellocchio a ritornare sulla questione, e a ritornarci in questo modo (con buona pace di Maria Fida Moro, figlia dello statista, che già nel 2003 si disse contraria alla realizzazione di Buongiorno, notte e che, recentemente, sempre a mezzo stampa, ha parlato di “coltello in una piaga sempre aperta, non assomiglia all’arte ma alla tortura”), dà la misura di quanto invece sia ancora importante scavare, riportare a galla, soffermarsi sulle sfumature di un avvenimento (non l’unico, certo, ma tra i più eclatanti) che ha capovolto per sempre i destini di questo paese.
Esterno notte, allora, oggi in Cannes Première, poi nelle nostre sale in due parti, la prima dal 18 maggio, la seconda dal 9 giugno con Lucky Red, per poi essere trasmessa nell’originale formato seriale su Rai 1 (il 14, il 15 e il 17 novembre), permette al regista de Il traditore di utilizzare una forma narrativa dall’ampio respiro per affrontare la molteplicità dei punti di vista dei personaggi che di quella tragedia furono protagonisti e vittime.
Per quanto Bellocchio, che neanche un anno fa (era luglio) per la Palma d’oro onoraria ricevuta dal Festival presentò in anteprima mondiale il suo bellissimo Marx può aspettare, si sia sbrigato a confermare che questa “è la mia prima e ultima serie”, resta pacifico invece che questo nuovo, lungo capitolo (durata complessiva 5 ore e 30 minuti) della sua filmografia vada ad inserirsi in un discorso cinematografico giustappunto “seriale”, dove l’attributo di continuità va ad agganciarsi ad altri, innumerevoli “episodi” della storia di questo paese che il regista di Bobbio ha saputo ri-raccontare in quasi 60 anni di carriera.
Si riparta allora da quella fuga notturna dell’Aldo Moro/Roberto Herlitzka di Buongiorno, notte – liberato dalla prigionia dalla brigatista Chiara interpretata da Maya Sansa – per avvicinarsi al folgorante incipit di Esterno notte, con l’Aldo Moro/Fabrizio Gifuni stremato ma vivo in un letto d’ospedale, al cospetto di Giulio Andreotti (Fabrizio Contri), Francesco Cossiga (Fausto Russo Alesi) e Benigno Zaccagnini (Gigio Alberti), e la sua voce over che “legge” una delle innumerevoli lettere, quella dove ringrazia “i brigatisti per avergli salvato la vita”.
A Bellocchio basta questa prima sequenza per gettarci all’interno di un dubbio che è poi – come di consueto – l’umanissimo dubbio di uno tra i più grandi cineasti dei nostri tempi: perché Moro ringraziava le BR?
In sei episodi Esterno notte diventa allora polifonia di punti di vista, ripropone la cronologia degli eventi – in alcuni casi partendo da qualche anno prima il ’78 – mutuandoli però attraverso lo sguardo dei vari protagonisti: il primo ci mette dentro il contesto storico-politico di quei giorni, dilaniati dagli scontri di piazza, conflitti a fuoco, gambizzazioni, con le Brigate Rosse in guerra aperta contro lo Stato e con il presidente della DC, Aldo Moro, artefice insieme a Berlinguer di quel “compromesso storico” che avrebbe portato, per la prima volta in un paese occidentale, l’insediamento di un governo sostenuto dal Partito Comunista in alleanza con la Democrazia Cristiana.
Il secondo si concentra sulla figura di Francesco Cossiga, all’epoca ministro dell’interno nonché “allievo” dello stesso Moro, e sul conflitto quasi paranoico che lo portò a vivere quei 55 giorni di prigionia, tra le ragioni di Stato e quelle dell’uomo; il terzo su Papa Paolo VI (Toni Servillo), amico personale di Moro, malfermo (morirà due mesi dopo il ritrovamento del corpo dello statista), che tentò in tutti i modi di fare breccia nel cuore dei rapitori attraverso discorsi, omelie, oltre che tentando per mezzo del monsignor Curioni (Paolo Pierobon) di convincerli con “lo sterco del diavolo”, 20 miliardi di lire raccolti per salvarlo tramite riscatto, fino all’ormai celeberrima missiva in cui chiedeva la liberazione “senza condizioni”.
Il quarto si sofferma invece sui due brigatisti, Adriana Faranda (Daniela Marra) e Valerio Morucci (Gabriel Montesi), la natura del loro rapporto, lo sviluppo e l’evoluzione di idee contrastanti rispetto al “direttivo” su come gestire la fine del rapimento; il quinto su Eleonora Chiavarelli, “Noretta” Moro (Margherita Buy), moglie di Aldo, “donna forte, fiera che si è portata nella tomba tanti misteri”, come la descrive lo stesso Bellocchio; il sesto, e ultimo, come il primo, ritorna “all’insieme” per arrivare alla “conclusione” sognata e a quella reale.
È un’opera che sfiora il monumentale, Esterno notte, perché mescola appunto l’esterno, il risaputo, l’ufficiale, con l’interno che non è più, non solo (come nel film diretto 19 anni fa), quello della prigionia Moro (elemento che comunque ritorna verso la fine, in quella minuscola stanzetta ricavata alla bell’e meglio, con il bellissimo confronto tra il prigioniero e il prete), ma l’intimo di rapporti affettivi – quelli di Moro con la famiglia, con l’amatissimo nipotino – politici – con i colleghi di partito, in primis – tra posizioni di facciata e situazioni di un’ambiguità irrisolta, vedi ad esempio la figura quasi irreale dell’uomo dei servizi americani.
Costruito come sempre con una meticolosità che illumina gli anfratti bui di una vicenda angosciosa, il lavoro di Bellocchio – scritto insieme a Stefano Bises, Ludovica Rampoldi e Davide Serino – non ha bisogno di alcuna furbizia o colpo basso per alimentare un interesse, negli occhi di chi guarda e nel cuore di chi assimila, che non scema in alcun modo, che anzi si amplifica di volta in volta.
Soprattutto grazie a suggestioni, analogie, alternanza di immaginario (Paolo VI che assiste alla Via Crucis dal suo letto e anziché i prelati ritrova di colpo l’amico Moro col peso della croce e tutta la DC schierata, in silenzio, alle sue spalle…) e reale (il materiale d’archivio da cui arrivano le voci dei TG, dei giornali radio – con echi quasi profetici di un Rosi che si apprestava a girare Cristo si è fermato a Eboli con Gian Maria Volonté... – il funerale della scorta con una vedova che si getta sulla bara del marito e, soprattutto, il funerale di Stato senza il feretro di Aldo Moro con cui si chiude l’intero racconto), perché poi in fondo – anche allora – di quello si è trattato.
Quell’uomo, come Cristo, ‘doveva morire’. Perché nulla potesse cambiare non solo nella politica, ma soprattutto nella mente degli italiani. Facendo un’eccezione alla mia regola di non ritornare più su storie già raccontate. Con un’ampia giustificazione e cioè che la notte che ho voluto raccontare nella serie era assente in Buongiorno notte”. (Marco Bellocchio).