PHOTO
Olivia Colman in Empire of Light
Dopo un trittico di film spettacolari (i bondiani Skyfall e Spectre, e il virtuosistico 1917), Sam Mendes ha deciso di riconciliarsi con un cinema più intimo e personale, pur senza sfociare nell’autobiografia, come hanno fatto recentemente molti suoi colleghi, da Cuarón a Spielberg.
Empire of Light infatti è ambientato negli anni ’80 e ha come fulcro, sia perché ne è lo sfondo principale, sia perché è uno dei temi cardine dell’intero film, un cinema, quello in cui lavora Hilary (Olivia Colman) e dove - sfidando la relazione clandestina ma noiosa con il proprietario della sala (Colin Firth) - si innamora di Stephen (Micheal Ward), giovane commesso afro-discendente, da cui oltre il colore dell’incarnato la divide anche una notevole differenza d’età.
Se fosse un mélo puro, per esempio Lontano dal paradiso di Todd Haynes o il suo prototipo Secondo amore di Douglas Sirk, il film racconterebbe la lotta della coppia contro lo stigma sociale e lo spirito dei tempi, che nell’Inghilterra di quegli anni era venato dal razzismo fomentato da parlamentari come Enoch Powell; invece, quello scritto dallo stesso Mendes, è un film che preferisce tenersi la tormentata storia d’amore come atout da giocarsi nei momenti di stanca, facendo dell’opera un pezzo di ricostruzione ambientale attorno a un preciso luogo, cioè Margate, cittadina costiera nell’estrema punta meridionale della Gran Bretagna, in un preciso momento storico, il 1981, e dentro un preciso contesto sociale, dal quale far emergere l’altro pilastro del racconto di Mendes, ovvero il cinema.
A differenza di altre opere contemporanee, come appunto Roma, The Fabelmans o per restare al Regno Unito Belfast di Kenneth Branagh, non è Mendes a mettersi in scena e a svelare il colpo di fulmine per il cinema, anzi i film e la sala sono qui un’ancora di salvezza per i personaggi e, allegoricamente, contro quella fetta di paese che ha scelto il razzismo e l’ignoranza, o il bigottismo ipocrita che forse è pure peggio.
Da una parte l’arte popolare e l’emozione, luoghi simbolici in cui poter essere se stessi e amarsi senza paura, dall’altra “il mondo fuori”, che ci opprime e ci costringe a nasconderci: quella di Mendes è una visione romantica della questione, come se il cinema proprio in quanto arte popolare non rispecchiasse quel mondo, non ne fosse eco o conseguenza, però fa parte del gioco di un film pensato per titillare i ricordi e le emozioni di un pubblico di riferimento chiaro. Quello che invece fa meno parte di questo gioco è la forma che il regista gli ha dato, come se avesse intenzione di riesumare i fantasmi decadenti dell’accademia britannica che 40 anni di cinema britannico avevano spazzato via con risolutezza: scrittura scolastica nel procedere della passione, perfetta per garantire a Colman premi e candidature, costruita col bilancino dei ricatti emotivi (non manca la follia), una regia poco sentita, troppo corretta e impostata, ad altezza di emotività senile e con pochissimi tocchi ironici (meno che mai quelli sorprendenti).
È uno di quei film per cui si finisce col dire “bravi gli attori (vero), bella la fotografia”: verissimo, perché Roger Deakins (ennesima candidatura all’Oscar) è un maestro e qui, dentro questo film tiepido e prevedibile come un centrino di lana sulla cassettiera della nonna, può far cantare in maniera magnifica le sue immagini, può cullare lo spettatore dentro la bellezza del cinema e delle sue luci.
Ecco dov’è l’impero della luce di cui parla il titolo, nel lavoro visuale di un genio del colore e delle ombre cinematografiche, perché se lo cercassimo dentro questo film intessuto di solitudine, repressione e un po’ di mestizia, che fa fatica ad animarsi e ad accendersi come invece vorrebbe, rischieremmo di trovarci delusi.