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Nome di donna, ma con un punto alla fine. Il titolo è Emma., “un’eroina che non potrà piacere a nessuno, fuorché a me stessa”, scriveva Jane Austen prima di dar vita al romanzo. L’accento è sulla protagonista, sul mondo chiuso che la circonda. In quel “.” si condensano gli eccentrici perbenismi, i sorrisi forzati, l’etichetta che stravolge il sentimento. È un universo bloccato, dove dominano i fraintendimenti amorosi.
La scrittura di Jane Austen nel 1815 portava il lettore a entrare nei pensieri dei personaggi, attraverso il discorso diretto, e la percezione di essere sospesi tra uno stile epistolare e un flusso di coscienza trattenuto. Invece oggi il film gioca sulla difficoltà di esprimersi, sugli errori nel comunicare, sulle passioni nascoste anche a noi stessi. Difficile anticipare le decisioni della nostra “eroina”, troppo impegnata a cercare il marito perfetto per le altre. Il matrimonio sembra non riguardarla, la vita agiata la annoia e la soddisfa allo stesso tempo.
A prestarle il volto è un’angelica Anya Taylor – Joy, che aveva già colpito Robert Eggers per The Witch e M. Night Shyamalan per Split. I suoi tratti innocenti sfidano le manifestazioni del male, e la fanno uscire vincitrice. Qui la nemica non è solo la giovane età, ma il sistema in cui è costretta. Per la prima volta Jane Austen aveva raccontato i vezzi di una famiglia ricca, lontana dalle ristrettezze di Ragione e sentimento e dai problemi di eredità di Orgoglio e pregiudizio.
Emma non ha bisogno di lottare per affermarsi. Si destreggia tra splendidi broccati e uomini vigorosi, deve solo maturare per acquisire consapevolezza di ciò che la circonda. L’esordiente Autumn de Wilde la segue con toni leggeri, la accarezza con lunghi primi piani e delicati movimenti di macchina. Il suo passato di fotografa si riversa nel film, dove c’è una particolare attenzione per le immagini raffinate. Accese cromature, colori lucenti che a poco a poco si ammorbidiscono. Dipinti che si riflettono negli specchi, luci che nascono dal fuoco delle candele.