In fondo, non si può fare che autobiografia. Non importa se reale o immaginaria, vissuta o solo vagheggiata. Contano le collisioni tra questi emisferi, e il modo soggettivo, intimo, di sintetizzarle e travasarle in letteratura.

Frances O’ Connor, dopo decenni di recitazione (A.I. Intelligenza Artificiale), si piazza per la prima volta dietro la macchina da presa, per cesellare vita, tormenti, slanci, incubi e immaginazioni di Emily Brontë. Un’esistenza che si definisce in un corpo a corpo con la scrittura: una vocazione scacciata, rinnegata, poi finalmente accolta e sublimata in un romanzo epocale.

Emily, o del tormento ispirativo, della catena di travagli, infingimenti che portano, anzi costringono a impugnare la penna per contenere la propria straripante, contraddittoria interiorità. Cime tempestose vedrà la luce nel 1847 e sarà un uragano nella bonaccia della letteratura vittoriana. Le sorelle letterate, contro la freddezza della critica, lo presagiscono subito tra invidie e gelosie. Charlotte partorirà, tra gli altri, Jane Eyre, e Anne firmerà Agnes Grey nello stesso 1847, poco prima che Emily muoia, appena trentenne.

Parte da qui, O’ Connor. Dal senso strisciante di morte che segna le tre sorelle Brontë. La scomparsa della madre ha sconquassato il maniero incastonato nel brullo Yorkshire. Il padre padrone, reverendo Patrick le tiranneggia, prescrivendo loro una tediosa vita da insegnanti a Bruxelles. EmIly traccheggia, nascondendosi dietro il suo francese zoppicante. Altra mina vagante è il bizzoso Brandwel, unico figlio maschio. Freedom in thougts, “libertà di pensiero” si è tatuato sul braccio, Emily lo imiterà subito. I due sono in simbiosi, si cimentano e si tormentano con la scrittura, urlano alle valli, scorribandano di notte in casa d’altri.

Se Brandwel è presto punito ed esiliato, il tappo dell’equilibrio puritano che aleggia su casa Brontë, però, salta in aria quando vi piomba William Wieghtman. Il tenebroso, aitante pastore fa sospirare le sorelline, dà lezioni di francese a Emily, la concupisce e l’abbandona, per senso di colpa, in balia di una passione divorante (quante simmetrie con le schermaglie amorose tra Heatcliff e Catherine del romanzo...).

Tra il senso del dovere paterno e l’amore clandestino con il curato, Emily, allora, scolpisce la propria inafferrabile interiorità che O’ Connor ci restituisce in uno sventolio di primi piani intimisti per scuotere una narrazione che spesso va al piccolo trotto.

La recitazione camaleontica e nevrile della neo-stellina Emma Mackey (fulcro di Sex Education, e prossima Barbie in tandem con Robbie), allora, si staglia, tra campi lunghi da cartolina, come uno strabordante saggio di recitazione. Mackey l’espressionista, sa riproporre tutto il tremolio emotivo della scrittrice, intestandosi con smorfiosa, sfrontata grazia, il saliscendi sentimentale della parabola. 

Piazzando la camera negli occhi di Emily, allora, O’ Connor può rimbeccare di sguincio l’Ottocento anglosassone, imbalsamato in cuffiette, carrozze, brughiere, chiese e colpe da espiare. Eppure l’attrice-regista ne mantiene, fedelmente, tutte le direttrici morali, con una sensibilità rabbiosa, postmoderna, orgogliosamente femminista: lega a doppio filo letteratura e vita, sfuma i confini tra biografia e leggenda, calca la mano sugli sconquassi del patriarcato, sulla famiglia come covo di vipere, sulle conseguenze dell’amore per la sua eroina.

Eppure, riplasmando l’Ottocento con il Duemila, la letteratura con la biografia, non perde il controllo davanti all’incandescenza sentimentale della materia, perché lavora con l’accetta, scartando, riducendo, essenzializzando la cronologia, asservendola allo stream of counsciousness (ante litteram) della protagonista, fatto, cinematicamente, d’un turbinio d’occhi e corse nelle praterie e pianti e rabbia e capelli al vento.

Emily
Emily

Emily

Il risultando è un film intimista, rarefatto e luttuoso, che scopre subito le carte in tavola e poi volteggia, leggiadro, trai generi senza lasciarsi ghermire da nessuno di loro: Emily non è né un biopic, né un prequel del romanzo, né un saggio letterario, né un affresco storico, né tantomeno una storia d’amore. È tutto questo, e la sua sussurrata negazione.

Perché O’ Connor impregna sì ogni scena di tutta la gravità morale e sentimentale del romanzo, ma, marginalizzando, stilizzando ambienti e caratteri, imprime alla trama un naturalismo atemporale, a sprazzi lirico – Emily che balla nel vento – , come sollevato dal tempo e sgravato dalla Storia, eppure rigoroso nell’almanaccarne e denuciarne perbenismo e discriminazioni. 

Insomma, un ode, di ambizioni esemplari, sulla vitalità frustrata ma non tramortita di Brontë, sulla sua insaziata sete di libertà contro le istituzioni (religiose, genitoriali, patriarcali), e sulla certezza che ogni pagina di letteratura, nella sua universalità, sia impregnata di uno sguardo individuale, privato, tanto intimo quanto fragile. E inconoscibile.