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Emancipation - Oltre la libertà
Una decina d’anni dopo 12 anni schiavo di Steve McQueen – che nel 2014 si aggiudicò l’Oscar per il miglior film – Antoine Fuqua abbandona il terreno congeniale del presente metropolitano (tra le sue cose migliori Training Day, The Equalizer, Brooklyn’s Finest) per ritornare nella Louisiana del 1860: Emancipation – dal 9 dicembre su Apple Tv+ – prende spunto dall’iconica foto di Whipped Peter (l’uomo in realtà si chiamava Gordon), “The Scourged Back” (la schiena flagellata), scattata durante una visita medica dell’esercito dell’Unione e pubblicate nel 1863 su Harper’s Weekly. Immagine che diventò ben presto il grido di battaglia contro la schiavitù.
Da quell’istantanea, Fuqua – su script di William N. Collage – ricostruisce la storia di Peter (Will Smith, nel film), uomo di origini haitiane che fugge dalla condizione di schiavitù – affidandosi al suo ingegno, ad una fede incrollabile e all’amore profondo per la sua famiglia – riuscendo a raggiungere un accampamento dell'Unione a Baton Rouge, dove finisce per arruolarsi.
Illuminato dalla lussuosa fotografia del tre volte premio Oscar Robert Richardson, che desatura a tal punto la palette tanto da restituire un’immagine sempre a metà strada il bianco/nero e il colore, Emancipation è survival-movie che non si/ci risparmia nulla, dalle violenze fisiche e psicologiche subite dal protagonista (e molti altri come lui), alla fuga disperata in mezzo alla vegetazione di paludi abitate da coccodrilli, corsa e inseguimento accentuati tanto dalle musiche quanto dai ralenti a effetto, caccia all’uomo (il predatore, bianco, è Ben Foster) che caratterizza grosso modo un’ora dei 132’ complessivi, per poi trasformarsi in film bellico verso il finale, con il nostro a vestire l’uniforme della Native Guard della Louisiana.
La guerra di Secessione, la vergogna della schiavitù, il proclama di emancipazione di Lincoln sono pagine con cui gli Stati Uniti e il cinema statunitense continuano a fare i conti in maniera più o meno regolare (si pensi ai recenti The Birth of a Nation di Nate Parker, Free State of Jones di Gary Ross o la miniserie The Underground Railroad di Barry Jenkins): la sensazione, ancora una volta, è che quando la questione viene affrontata in maniera frontale (per capirci non in maniera metaforica come capita, ad esempio, con registi come il Jordan Peele di Get Out, Us e Nope) non si riesca a trascendere, ad evitare l’ipertrofia espositiva, dell’orrore, del dolore, della tragedia.
Non che si metta in dubbio ciò che si vede, quello che è stato, quello che attraverso altre forme, purtroppo, ancora è, ma allo spettatore non viene lasciato alcun margine di manovra, di pensiero, di suggestione che non siano quelle derivanti da dolly e droni svolazzanti, da una recitazione indubbiamente totalizzante di Will Smith che, in condizioni normali (leggi: se non fosse stato bandito dall’Academy per i prossimi 10 anni), con ottima probabilità – dati i criteri imperanti con cui i membri candidano film, attrici e attori – finirebbe in cinquina e rischierebbe di bissare l’Oscar vinto quest’anno per Una famiglia vincente – King Richard.