Dopo la parentesi Jackie, e prima dell'annunciato True American, Pablo Larraín torna in Cile, a Valparaíso, per realizzare il suo film forse più anarchico e liberatorio, incendiario e acido, paradossalmente ferocissimo e tenero in egual misura.

 

Il film “è” Ema, giovane ballerina che decide di separarsi dal coreografo Gastón (Gael García Bernal) dopo aver rinunciato a Polo, bambino che avevano adottato ma che non sono stati in grado di crescere.

 

È una danza incessante di corpi inesausti, reggaeton tribali, un inno quasi sovversivo alla libertà nella sua accezione più fanciullesca e folle, un duello dialettico e un combattimento carnale che la discontinuità del montaggio tende ad esaltare insieme allo straordinario lavoro di José Vidal alle coreografie, di Nicolás Jaar alle musiche e di Roberto Espinoza al suono.

 

Ma il cuore pulsante, la palla infuocata dal rimbalzo imprevedibile è naturalmente Ema, una sorprendente Mariana Di Girolamo, dalla chioma biondo platino e dalle idee più chiare di quanto l'accennata follia possa erroneamente far credere.

 

Il cinema di Larraín sembra allora volersi lasciar mangiare dalle stesse fiamme sputate con veemenza da Ema per le strade di Valparaíso, città portuale abitata in ogni angolo, in ogni locale notturno, nei playground o nelle palestre dalla sensualità dirompente di un ballo carnale e lisergico: “bruciare per seminare”, Ema è disperatamente in cerca di storie d'amore che l'aiutino a superare il senso di colpa. Ma allo stesso tempo porta avanti un intricato piano segreto per riprendersi tutto ciò che ha perduto.

 

Primo film di Larraín (dopo l’esordio nel 2006 con Fuga) a non preoccuparsi di inseguire i fatti della Storia – attraverso i quali, solitamente, riportava a galla le distorsioni di verità manipolate dal potere – Ema vuole ribaltare le convenzioni precostituite, in un certo senso debellando il potere stesso, il senso delle istituzioni, del pensiero dominante, partendo dalle viscere di un movimento che fonde letteralmente anima&corpo.

 

 

Popolato superficialmente da un’amoralità ai limiti dell'esibito, il film lavora sottotraccia seguendo invece le orme di una morale netta (“un” Polo…), senza riuscire a fermarsi laddove sarebbe stato meglio concludere (su quell'inquadratura frontale di Ema e il bambino, insieme, sul sedile posteriore di un taxi), per sfociare in un surplus descrittivo che sembra quasi voler “normalizzare” il tutto, rinfrancando e fiaccando con un finale idilliaco/grottesco la potenza esplosiva dell’intera operazione. Ma non si può ballare per sempre.

 

E dalle ceneri di Ema, chissà, nascerà un nuovo cinema Larraín.