Iconoclasta ma affettuoso, irriverente con rispetto, divertente e celebrativo: una riflessione sullo statuto iconografico della Regina, per festeggiare i 70 anni di regno
Che sia l’iconoclastia il modo migliore per onorare Elisabetta II? Simulacro istituzionale e icona popolare, la regina che da settant’anni governa e protegge il popolo inglese è oggetto anzi soggetto di Elizabeth, il documentario che segna l’ultimo credito cinematografico di Roger Michell, morto nel settembre 2021.
Ma quella del regista di Notting Hill è un approccio iconoclasta nella forma più che nell’atteggiamento, invero affettuoso se non devoto, certo ammirato e comunque rispettoso anzitutto di una storia che ha pochi eguali nella storia della modernità.
Perché Elisabetta, ricordiamolo, in quanto figlia del secondogenito del sovrano, non nasce con il destino della corona: al trono ci arriva per la prematura morte del padre Giorgio, incoronato dopo la traumatica abdicazione del fratello Edoardo.
E però – e qui sta il mistero e il fascino della figura prima che del personaggio – si sente investita da Dio, dunque chiamata a un compito a cui non può sottrarsi nonostante le infinite difficoltà occorse durante il suo lunghissimo regno.
C’è da dire che, almeno a partire dallo straordinario The Queen capace di metterne in luce il portato umano all’altezza di una tragedia (la morte di Diana) che picconò come mai lo status quo monarchico, l’audiovisivo ha contribuito a ricostruire e ripensare l’immagine della regina, arrivando allo zenit della serie The Crown, un capolavoro che sta riscoprendo quell’umanità spesso annichilita dal ruolo, rendendo Elisabetta una vera, complessa, palpitante eroina da romanzo.
Michell, che ha ben chiaro quest’orizzonte, in sinergia con la montatrice Joanna Crickmay, costruisce un ritratto composito e sciolto (in originale si chiama, per l’appunto, A Portrait in Part(s)), rinunciando alla gabbia dell’andamento cronologico, alla pedanteria della voce narrante, al pericolo agiografico.