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Elegia americana - da sinista Haley Bennett, Glenn Close, Owen Asztalos. Photo Cr. Lacey Terrell/NETFLIX © 2020
Nella vita reale, J.D. Vance, l’autore del fortunato memoir Elegia americana all’origine del film (disponibile su Netflix), è un repubblicano dal volto umano, non conforme alle degenerazioni di Donald Trump e vicino a una certa idea di America fatta di working class che soffre alla periferia delle grandi città. È curioso che la trasposizione del suo complicato percorso familiare ed esistenziale arrivi in tutto il mondo nel mese in cui gli Stati Uniti accolgono il più rassicurante e assennato Joe Biden alla presidenza. Sembra quasi una parafrasi dell’intera operazione.
Qualcuno, all’indomani della vittoria di Trump, disse che per capire qualcosa in più sarebbe stato utile leggere bene Elegia americana (uscito proprio nel 2016): quella storia dava voce ai lavoratori, ai non-garantiti, ai dimenticati bianchi. Ne svelava le angosce, le precarietà, le zone d’ombra, i disincanti e ne rivendicava la presenza in un mondo che pareva ignorarli a discapito delle altre minoranze. C’è chi si riferisce a loro con l’espressione “White Trash”, senza nascondere un malcelato disprezzo classista.
È un racconto dal profondo Ohio, Elegia americana (titolo ambizioso, non c’è che dire, ma l’originale Hillbilly evoca la musica country tipica di quelle regioni), dall’interno delle comunità montane di cui Vance – nato tra i monti Appalachi – si faceva rappresentante nonché modello. Nonostante le disfunzioni familiari (una madre tossicodipendente che determina tutta una vita), le secche economiche (si sopravvive con i sussidi), gli orizzonti limitati, il ragazzo è riuscito a diventare “qualcuno”, incarnando la speranza che “un nuovo sogno americano è possibile”.
Se la sceneggiatrice Vanessa Taylor ha privilegiato lo studio dei rapporti personali tra Vance e le donne della famiglia (la mamma frangibile e la nonna burbera, ma anche la sorella e la compagna), Ron Howard si è ritrovato un romanzo che è una bomba piena di contraddizioni. Un testo amato dai conservatori contemporanei nelle mani di un Oscar dal profilo liberal? Il biopic di un repubblicano riletto dallo sguardo di un democratico?
Alle prese con una delle prove più complicate della sua carriera, Howard ha scelto la via media: un colpo al cerchio della celebrazione dei valori americani e uno alla botte dello spettacolo ecumenico. Individua nel tema del riscatto la chiave per rendere accessibile una storia connotata dal suo “stare da una parte”, guarda alle grandi narrazioni del passato ma procede con un passo che tiene conto dei ritmi della serialità imperante.
Regista intimamente votato al ricordo e alla rievocazione di una certa idea di classicità, Howard si dimostra qui timorosamente tradizionale, perfino spaesato e superficiale nel trovare una cifra che possa rendere la sua Elegia americana qualcosa di davvero solido, intonato e compatto (la parte adolescenziale, meno problematica sul piano ideologico, regge più di quella adulta).
Un film che sembra accompagnare gli americani nella transizione dalla violenza imposta dal linguaggio di Trump verso il tono di Biden, nel tentativo di riappacificare gli animi e riconoscersi sul terreno civile delle differenze. Magari da questa parte dell’oceano riusciamo a vederla in modo meno tranchant (negli States il massacro critico è stato unanime) e in altri tempi questo film sarebbe stato un maestoso “Oscar bait”. Restano le performance maiuscole di Amy Adams e Glenn Close, con quest’ultima eccellente nel recitare servendosi di e non affidandosi a un ingrato ma coerente makeup.