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Effetto domino
Torna alla fiction, dopo Piccola Patria (2013), il documentarista Alessandro Rossetto, ma si porta dietro la sua cifra stilistica originaria. Si vede l’influenza del documentario nelle inquadrature panoramiche, nella lentezza del movimento di macchina, o nella sua assenza, nei tempi e negli stacchi. Si vede persino nell’occhio per il frequente primo piano, elemento grammaticale fondamentale del cinema.
Il ritmo di questo Effetto Domino, liberamente tratto dall’omonimo romanzo di Romolo Bugaro e presentato a Sconfini in questa 76° edizione della Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia, è un lungo e dosato respiro nel Nordest italiano. Forse così lungo e così dosato per svolgere al meglio una storia che è un intricato labirinto di investimenti, cessioni, trattative, lavori, minacce e, ultimo ma non meno importante, colpi bassi. Come quello di una banca che ritira un finanziamento, dopo averne erogato una parte comunque ingente, e chiede indietro quanto già versato per un trascurabile vizio di forma.
È questo a innescare l’effetto domino, a distruggere il sogno di successo di una coppia di imprenditori, convinti di aver trovato il business definitivo: l’anzianità. Fisicamente si tratta di rimettere a nuovo residence per la terza età, concettualmente è la negazione perpetua della morte.
Ma quest’aspirazione, di puntare al tempo-denaro affrancandosi dal denaro-denaro, è destinata (per ora) a rimanere tale. I legacci di un’economia opprimente, onnivora e, per giunta, volubile sono troppo stretti per permettere un’uscita non traumatica, una fuga che non sia un compromesso.
Effetto domino non svilisce mai il suo lato concettuale, le sfumature anche estetiche di una fotografia grigia e fredda, riuscita, regionali tipiche di un accento da noir cinetelevisivo e musicali di una colonna sonora, invece, piuttosto ripetitiva e claustrofobica, ma non in senso funzionale al racconto.
Forse l’ambizione stessa del film, molto alta, è limitata da un equilibrio complicato, e non sempre conquistato, tra le parti in causa. Ad alcune inquadrature ad effetto (purtroppo, non domino), se ne intervallano molte anonime, alla ricerca di un’identità. Lo stesso uso della voce narrante e la divisione in capitoli, quest'ultima per restare fedeli all’opera originaria, sono espedienti già visti e non esprimono un coraggio netto, una direzione marcata che, piuttosto, avrebbe giovato al dramma.
La recitazione corale lavora per sottrazione, e quando sottrae di più spicca anche maggiormente, ma sono moltissimi i passaggi da spiegare, impossibili da mostrare altrimenti, e il succitato ritmo ne risente. Anche quando si volge lo sguardo al lato più sovrannaturale del discorso, una vita infinita che elegga il tempo a moneta, l’anelito non va oltre un territorio sicuro di sentieri già tracciati.
Non una prova negativa, quindi, perché presenta elementi di valore, ma una di compromesso, che incuriosisce verso un mondo, dal di fuori, dipinto troppo spesso a grandi linee, verso il romanzo di Bugaro e verso un possibile, futuro nuovo e più consapevole tentativo. Intanto, però, c’è la Sezione Sconfini di Venezia, e non è affatto poco.