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Educazione Fisica © Gianfilippo De Rossi
Tutti noi, dall’alto della nostra integrità di fronte ad un accadimento estremo commesso da una persona cara, ci sentiamo sicuri nel giurare e spergiurare che mai e poi mai ci abbasseremmo a giustificarne un comportamento ignobile, seppur mossi dalla connaturata propensione alla difesa di qualcuno che riteniamo amato. Se questo poi scatena l’istinto di protezione genitoriale verso i figli, l’impulso al cieco sostegno si fa coriaceo.
Presupposto, questo, alla base di Educazione fisica di Stefano Cipani, adattamento del testo teatrale La palestra di Giorgio Scianna e sceneggiato dai fratelli D’Innocenzo. In una scuola media di provincia, i genitori di tre studenti di tredici anni vengono convocati dalla preside (Giovanna Mezzogiorno) nella palestra. Il motivo? Un malfatto avvenimento di cui i figli sono responsabili.
A dover fare i conti con la notizia, tra scetticismo e accoramento, Franco (Claudio Santamaria), l’imprenditore benestante, Carmen (Raffaella Rea), madre divorziata con una relazione clandestina con quest’ultimo e la dimessa coppia composta da Aldo (Sergio Rubini) e Rossella (Angela Finocchiaro), genitori adottivi di un ragazzino di origine africana. Ma alla già intricata situazione, si aggiunge qualcosa che renderà il quadro ancora più tragico. Rinchiusi nell’angusto spazio della sala da ginnastica, quello che va in scena è la lotta alla sopravvivenza, senza sconti, un processo animato da inappropriati convincimenti e perpetrato da personaggi tipizzati, aventi come solo obiettivo il nascondere la verità.
L’impianto teatrale d’ispirazione è evidente e l’unico ambiente, delimitato dalle quattro pareti e da quel “muro immaginario” postulato da Diderot, immobilizza i protagonisti e li costringe a rivelarsi, a mostrare la brutalità della propria indole più istintiva e nascosta. Nessuno salva nessuno. Facile è notare anche l’apporto del duo romano alla sceneggiatura, costellata dalla narrazione di un universo periferico violento e di individui oltre il limite dell’immoralità.
Si giustifica e si nega l’evidenza fino a rifiutare ciò che appare indiscutibile, tanto da concretare la miserabile colpevolizzazione della vittima, corresponsabile al trattamento inflittale. E se da un lato lo spettatore non si sorprende davanti all'atteggiamento abominevole dell’uomo di successo, intrappolato nel cliché del senza cuore, infarcito di becere convinzioni, è l’emergere della cosiddetta “banalità del male” delle altre persone coinvolte, dotate di caratteri ordinari, ma che invece mostrano le più spregevoli pieghe dell’animo umano.
Nonostante però le intenzioni siano buone, lo svolgimento e la caratterizzazione sono, fin da principio, poco realistici. Le dinamiche inverosimili di rivelazione del reato, gli irresponsabili provvedimenti e le assurde prese di posizione, coniugati ad un’estremizzazione dei toni recitativi, rendono il film privo di rispondenza con la realtà. Forse l’adesione completa al genere drammatico, non cucito perfettamente, rende poco credibile una storia che avrebbe potuto spingere l’acceleratore sul surrealismo che timidamente si manifesta.