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Filippo Scotti in È stata la mano di Dio. Foto di Gianni Fiorito
Vent’anni dopo l’opera prima L’uomo in più Paolo Sorrentino torna a Venezia, in Concorso, con E’ stata la mano di Dio, prodotto da The Apartment e Netflix: arriverà in cinema selezionati il 24 novembre, per approdare sulla piattaforma streaming il 15 dicembre.
Il film prende spunto dalla biografia del regista e sceneggiatore, sui binari del racconto di formazione: non è quello personale, intimo l’unico motivo inedito, e perfino sorprendente, nella filmografia di Sorrentino, giacché anche la messa in scena si risolve a una semplicità, e perfino elementarità, che non avremmo detto, ché fin qui non avevamo visto. Un ritorno al futuro che apre prospettive inedite per l’autore, dopo l’impasse del dittico Loro su Berlusconi e l’esperienza seriale dei due Papi. Lo stile trasmuta in sensibilità, l’adrenalina in confidenza, l’iperbole in paratassi, l’exploit in consapevolezza: non è un film esaltante, perché non lo vuole essere.
Nel cast Filippo Scotti, Toni Servillo, Teresa Saponangelo, Marlon Joubert, Luisa Ranieri, Renato Carpentieri, Massimiliano Gallo, prende il titolo da un’impresa di Maradona, “il più grande calciatore di tutti i tempi”, e dalla salvezza che garantì a Paolo, che anziché accompagnare i genitori nella casa di Roccaraso seguì il Napoli, scampando al monossido di carbonio.
Il dato autobiografico si travasa nella Napoli Anni Ottanta nell’alter ego Fabietto Schisa (Scotti), diciassettenne che cerca il proprio posto nel mondo, forte di una famiglia schietta e complicata (Servillo e Saponangelo i genitori, Joubert, bravo, il fratello) e di una città che freme per il possibile arrivo del campionissimo Diego: la disgrazia cambia tutto, per Fabietto e per il film, che alla commedia accosta la tragedia, al riso le lacrime, sopra tutto quelle che il giovane non riesce a versare.
È qui la genesi del film e, si direbbe, del nuovo cinema Sorrentino, nato - e ora rinato - da una pulsione scopica negatagli dalla vita: “Non me li hanno fatti vedere”, confesserà al mentore Antonio Capuano in riferimento ai genitori scomparsi. Certo, l’abbrivio felliniano è “la realtà (che) è scadente”, eppure, la trasfigurazione stavolta è calmierata, giacché Sorrentino fa professione di fede prima nel vissuto e poi nell’immaginato: misurato, trattenuto, sicché lo spettatore vorrebbe a tratti una soluzione di continuità nel controllo, un’apertura incondizionata all’emozione, che forse trova il suo clou – non casualmente – sui titoli di coda, nel contributo esterno – non casualmente - di Napul’è di Pino Daniele.
Ma nell’inusitata regola monastica – vedi monacello – che Sorrentino s’è dato rimangono gli interstizi per la vecchia grandeur immaginifica, la ragazza con l’hoola hoop, i nudi della zia di Fabietto (Luisa Ranieri, super), le tavolate con i parenti serpenti (la sequenza più divertente), e per le battute di senso: “Noi siamo comunisti. Siamo onesti a livello interiore” (Servillo, super); “L’importante è togliersi dal cazzo questa prima volta” (Servillo); “Pettinami la spaccatura”; “La superfessa”; “Senza conflitto è solo sesso, e il sesso non serve a niente” (Ciro Capano che fa Capuano); “Chi non ha coraggio non va a letto con le femmine belle” (Capuano); “Se non hai le idee ti serve un dolore”; “La speranza è una trappola”; “Solo i strunz vanno a Roma”.
Film di faglia tra quel che è stato e quel che sarà, E’ stata la mano di Dio, parafrasando l’unico altro film che Sorrentino ha girato a Napoli, potrebbe alternativamente intitolarsi Il dolore in più.