Sulle tracce di Eleonora Duse, come una detective, Sonia Bergamasco esordisce alla regia e ci accompagna in un’investigazione sulla grande attrice a cento anni dalla morte: Duse The Greatest. Non era cosa semplice: la Duse non rilasciava interviste, inesistenti i video dei suoi spettacoli, se non un frammento di Cenere ovvero un piccolo film muto nel quale figurava come una donna esile dai capelli grigi e dall’aria stanca, pochissime le testimonianze, e solo qualche sua fotografia e ritratto. Eppure questo documentario, prodotto da Propaganda Italia, Quoiat Films e Luce Cinecittà (che lo distribuisce anche), immaginando e lavorando su una figura assente riesce a coglierne l’essenza più di quanto facciano tanti doc pieni zeppi di materiale. Il segreto? Cavalcare proprio questa mancanza sulla scia dei versi di Attilio Bertolucci: “assenza più acuta presenza”.

Ne esce fuori un ritratto a tutto tondo, anche grazie alle stesse lettere della Divina. Un nume tutelare del teatro che emerge attraverso gli sguardi e il racconto orale di tanti intervistati, tra cui Valeria Bruni Tedeschi (che l’ha interpretata nel biopic di Pietro Marcello), Fabrizio Gifuni, Helen Mirren, Ellen Burstyn e tanti altri e attraverso lo studio dei libri della storica dello spettacolo Mirella Schino.

L’interesse della Bergamasco verso la musa di D’Annunzio nasce da lontano: ogni giorno la vedeva su un ritratto mentre saliva e scendeva le scale della scuola di teatro al Piccolo di Milano. Ci si è accostata con la stessa delicatezza con cui la Duse muoveva le sue mani, come una farfalla, e con la stessa sua poesia, frugando tra le righe e nei dettagli, osservando attentamente le foto (e anche i suoi lobi delle orecchie!), guardando le sue caricature, il suo modo angoloso di muovere le braccia e il suo tenere la testa sempre un po’ alzata che le dava un senso di leggerezza come se stesse sempre per muoversi, e perfino con l’aiuto di una grafologa. Ma anche immaginando la sua voce non convenzionale, un po’ stridente e nasale, e raccontandoci il suo modo di fare teatro, che univa il classicismo al naturalismo tanto da sembrare che non recitasse, il suo modo di scegliere i ruoli (“io non guardo se hanno mentito, se hanno tradito, se nacquero perverse purché io senta che esse hanno pianto”) e il suo rapporto con il cinema, un campo tutto nuovo che lei capì, del quale al tempo stesso ebbe timore e nel quale vi volle entrare, non in primo piano, ma nascosta e tenuta nell’ombra.

Diversa ogni sera, attrice, capocomica, antidiva, nata a Vigevano a metà ottocento, originaria di Chioggia vicino Venezia da parte del padre e poi trasferitasi ad Asolo, per lei asilo ed esilio, ha incarnato in tutto il mondo un ideale per generazioni di artisti, da Marilyn Monroe ad Anna Magnani, da Charlie Chaplin allo storico direttore dell’Actors Studio, Lee Strasberg. Inafferrabile ed evanescente, ha creato un mito e un vuoto e la Bergamasco riesce a restituirci appieno queste due facce della stessa medaglia portando sul grande schermo tutte le Duse possibili, o per dirla alla Pirandello (che tra l’altro la definì: “attrice suprema”): una, nessuna e centomila Duse.