Iniziamo dalle cose ovvie: i primi due capitoli di Dune sono stati una sorta di miracolo. Non solo hanno tradotto in gloria sul grande schermo un romanzo considerato quasi “infilmabile”, ma sono arrivati a simboleggiare per la fantascienza contemporanea ciò che Il Signore degli Anelli di Peter Jackson ha significato per il genere fantasy.

Considerando che pure la saga di Dune poggia su una lore che definire complessa sarebbe un delicato eufemismo, svilupparne qualche prequel seriale è un’occasione indubbiamente ghiotta. Rispetto all’opera di J. R. R. Tolkien, è tuttavia necessario un distinguo. Mentre il Professore di Oxford creò e rifinì personalmente ogni infimo granello (linguistico, estetico, storico e filosofico) del proprio universo, Frank Herbert ha firmato “solo” i primi sei romanzi del Ciclo di Dune (usciti tra il 1965 e il 1985), mentre gli ultimi due (pubblicati nel 2006 e nel 2007) sono stati scritti dal figlio Brian Herbert e da Kevin J. Anderson.

Dune: Prophecy
Dune: Prophecy

Dune: Prophecy

E, dal momento che sempre loro hanno sviluppato le varie trilogie prequel (Prelude to Dune, Legends of Dune, Heroes of Dune, Great Schools of Dune e The Caladan Trilogy), tali testi – per quanto, ovviamente, basati su appunti e indicazioni di Herbert senior – non possono rappresentare un canone mitopoietico paragonabile al Silmarillion tolkieniano. Il che, tradotto in soldoni, significa molta più libertà di intervenire sul materiale originario, specialmente se i due autori vengono coinvolti a livello produttivo (e quindi si presume siano d’accordo sulle scelte televisive).

Nata all’ombra del film di Denis Villeneuve, la serie HBO ha avuto una genesi lunga e difficile, fatta di pause forzate e numerose sostituzioni, che hanno coinvolto regia, sceneggiatura, cast e persino le musiche. Pure il cambio del titolo, da Dune: The Sisterhood (in riferimento al romanzo Sisterhood of Dune) a un più generico Dune: Prophecy fa capire quanto vincolarsi a un materiale letterario suoni più come un limite che un vantaggio.

L’obiettivo primigenio della trama – ambientata 10.000 anni prima della venuta di Paul Atreides – è far scoprire come la Sorellanza delle Streghe di Rossak è divenuta il Bene Gesserit sotto la guida di Valya Harkonnen (interpretata da Emily Watson nella maturità e da Jessica Barden nella giovinezza), allieva prediletta della fondatrice Raquella Berto-Anirul (Cathy Tyson), ossia colei che per prima ha alterato la propria chimica corporea ed è divenuta una Reverenda Madre tramite l’agonia della spezia. Attraverso la storia delle sorelle Harkonnen (la machiavellica Valya e la sottomessa Tula/Olivia Williams), sarà chiarito l’odio che contrappone la loro casata a quella degli Atreides: una faida che affonda le proprie radici nel Jihad Butleriano (la grande rivolta contro le macchine pensanti) e nelle scelte compiute da Xavier Harkonnen e Vorian Atreides (due personaggi su cui, chi sa, dovrà mordersi le labbra a sangue per non fare spoiler).

E finché si muove in quest’orbita (intrecciata al corpus letterario), Dune: Prophecy scorre, complici sia il fascino esoterico che ammanta l’ordine delle Bene Gesserit, sia la volontà di sapere cosa ci celasse nel passato degli Harkonnen prima che ascendessero allo status di villain intergalattici.

Allo stesso modo, il comparto visivo ed effettistico funziona quando si pone in relazione diretta con l’estetica modellata dai film di Villeneuve (pur non potendo, per motivi mediatici e pratici eguagliarne la grandiosità). Il problema sorge quando la serie prova a cercare una propria identità, dato che la volontà di offrire “altro” rispetto alle pellicole non la porta a una nuova originalità bensì a proporre delle storyline (come quella della casa imperiale Corrino) che sembrano riprese – senza troppa ispirazione – da Star Wars o dal Trono di Spade stellare.

Se si considera che, a suo tempo, sono state queste due saghe ad attingere a piene mani a quella di Frank Herbert, suona alquanto ironico che sia proprio un prodotto targato Dune a sembrare derivativo.

Insomma, lontani da Arrakis (pianeta confinato a qualche sporadica visione) e dalla Scuola Madre delle Bene Gesserit, manca la magnifica alterità plasmata da Villeneuve, capace di ripristinare l’unicità del materiale recuperandone la forza archetipica. Il fatto che gli altri mondi siano fin troppo simili a Westeros, che si parli di ribellione contro l’Impero e che si giochi al “gioco del trono” dimostra come la via percorsa da HBO non sia quella dell’azzardo, ma della riconoscibilità e del pattern collaudato, dove tutto richiama qualcosa che si è già visto altrove (e quindi, teoricamente, dovrebbe convincere lo spettatore a seguire la serie in quanto altrettanto appassionante).

Paradossalmente perfino il cast sembra diviso a metà: efficace per quanto riguarda Bene Gesserit e Harkonnen (fra cui, a sorpresa, fa capolino anche Mark Addy), evanescente e poco convinto altrove (persino Mark Strong sembra spaesato come Imperatore Javicco Corrino). Stendiamo un velo pietoso sui giovani aristocratici con fisici da modelli (che fanno i trasgressivi drogandosi, scopando e andando per locali su limousine futuribili, manco fossimo nella Manhattan di Gossip Girl) perché l’idea che questo sia il pedaggio da pagare per far piacere gli show televisivi ai ragazzi è più radicata della gramigna. Un po’ come l’inserimento di qualche sequenza di sesso (così coreografata che l’erotismo resta educatamente fuori dalla porta) per confermare che si tratta pur sempre di un prodotto HBO.

Volendo esemplificare la natura di Dune: Prophecy in un personaggio, la scelta non cadrebbe su Valya o Tula, bensì sul misterioso Desmond Hart, che avendo l’aspetto (e lo sguardo) di Travis Fimmel resta sospeso fra più influenze (un po’ Ragnar Lothbrok e un po’ Rasputin), oscillando tra passaggi previdibili ed exploit inattesi. Esattamente come potrebbe fare la serie, a cui, pur con riserve, va comunque un voto di incoraggiamento.