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Non più umanista come in Arrival (2016), bensì antropologica ed etnografica, magica e sciamanica: Denis Villeneuve trova nuovi attributi alla fantascienza qui e ora con Dune, la prima parte del dittico che adatta il celebre romanzo sci-fi del 1965 di Frank Herbert.
Si era già cimentato David Lynch nel 1984 con esiti controversi, ci aveva già provato Alejandro Jodorowski senza concludere, ma a Villeneuve non tremano i polsi: la sua trasposizione è avvincente, poderosa, sottile e febbrile, dal 16 settembre la troveremo in sala con Warner Bros., dopo questa anteprima mondiale alla Mostra di Venezia.
Fuori concorso, ma potrebbe competere senza patemi per il Leone: dalla fotografia (Greig Fraser) ai costumi (Jacqueline West), dalla scenografia (Patrice Vermette) alle musiche (Hans Zimmer), dai fondamentali effetti visivi (Paul Lambert) a quelli speciali (Gerd Nefzer), tecnicamente è indiscutibile – e chissà per quanti Oscar concorrerà – ma la sceneggiatura, co-firmata dallo stesso Villeneuve, e le prove attoriali, a partire dal protagonista Timothée Chalamet, conducono in un’altra dimensione, a una guida galattica per autori dentro il Sistema, a un guadagno poetico che è ben più della somma dei dipartimenti.
Nel cast all star Rebecca Ferguson, Oscar Isaac, Josh Brolin, Stellan Skarsgård, Dave Bautista, Zendaya, nonché Charlotte Rampling, Jason Momoa e Javier Bardem, Dune inquadra il viaggio dell’(anti)eroe Paul Atreides, garibaldino per raddoppio, sensitivo per facoltà, prescelto per missione: Chalamet gli concede silhouette, fremiti e sofferenza come si conviene, riuscendo a triangolare tra fede, istinto e destino, ovvero sangue, natura e libero arbitrio con agio ed eleganza.
Villeneuve fa di Herbert un apologo dell’adattamento, del cambiare o morire, portando sul grande schermo un’epopea tanto conflittuale, gli Atreides e gli Arkonnen, quanto subliminale, tanto tonitruante – ma mai fracassona – quanto centripeta, in cui il carburante si dice spezia ma si vuole sogno. Il senso del regista canadese per la fantascienza è la premonizione e l’empatia, doti che ne plasmano anche gli effetti visivi: la scala di grandezza non è titanica, ma irrimediabilmente umana, questo Herbert echeggia tanto Shakespeare che i mondi possibili, tanto l’antropologia visiva che la guerra di mondi.
È un film rotondo, pieno, equilibrato, malgrado la seconda parte sia meno drammaturgicamente solida della prima, ed è un film dal passo lungo, e non solo per il sequel in cantiere: si prova demiurgo Villeneuve, firmando con Herbert una science fiction adulta, fascinosa, calibrata e risuonante.
Di Chalamet abbiamo detto, il passo a due alchemico con Rebecca Ferguson, ovvero la madre Lady Jessica, è sapido e alchemico, bene anche Zendaya nei panni dell’indigena Fremen Chani, che prenderà il comando nel secondo capitolo, mentre sia Momoa (Duncan) che Brolin (Gurney) e Bardem (Stilgar) sanno andare oltre la mera muscolarità, per tacere di Isaac, il Duca padre di Paul, che ha uno spin crepuscolare.
Quantità e qualità, dimensioni e sentimento, Dune ha tutto per lasciare il segno nella fantascienza d'inizio Terzo Millennio.