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E se la Palma andasse a un film di genere? E se la Palma, addirittura, andasse a un film su commissione? Noi ne saremmo felici: Drive offre al cinema del Terzo Millennio una promessa già mantenuta, Nicolas Winding Refn.
Il genietto danese di Pusher, Bronson e Valhalla Rising sbarca in America, senza tradire se stesso e facendo di necessità produttiva virtù: Drive safe home, porta a casa la sua cifra stilistica, la sua poetica innervata di pessimismo, la violenza servita con un bacio, lo stallo in movimento.
L'ha voluto Ryan Gosling, suo sincero estimatore, perché dirigesse l'adattamento firmato da Hossein Amidi del romanzo omonimo di James Sallis. Il produttore Mark E. Platt era rimasto affascinato dal protagonista, un pilota talentuoso, "buono" e innominato, come il cattivo di Dirty Harry: Clint Eastwood, Steve McQueen, la sua fascinazione era per quegli uomini che dicono molto ma parlano con le azioni, con le mani che impugnano un bastone.
Il 40enne Refn non ha tradito queste attese e non le ha eluse, ma ha fatto sensibilmente di più, e meglio: stuntman per il cinema e pilota per la criminalità, il suo protagonista no name (Gosling, straordinariamente impassibile) ci guida nella generazione no future, dove l'amore – per la stupenda Carey Mulligan – è solo potenza, la facoltà non si abbina alla proprietà (guida, non possiede le auto)e la tenerezza e lo spirito paterno stanno nella stessa inquadratura della violenza iperrealista, del parossismo vendicativo che si fa splatter.
Ma in questa traiettoria di genere, Refn inscrive le prospettive del suo grandangolo, una luce lirica che contrappunta l'ambigua e oscura esistenza del suo protagonista e dei malfattori del suo milieu, in primis la premiata ditta Ron Perelman e Albert Brooks. There will be blood, e scorrerà anche il sentimento, ma inevitabilmente frustrato: l'unico bacio tra Ryan e Carey è un escamotage per il compimento della violenza, una testa maciullata sotto le scarpe. La fisicità è asservita alla lotta, se non una sua esclusiva. In una scena da brividi, tanto è staticamente elettrica e sensualmente evocativa, Ryan e Carey si sorridono muti,lasciando parlare la luce: è il loro climax, sebbene preceda tutto quel che (non) sarà.
Sulla carreggiata dell'action criminale, dunque, Refn fa stop e go nell'intimismo, rifornisce macchine e pilota di ineluttabilità e masochistica accoglienza di un sé che non conosce il desiderio compiuto: pilota senza direzione, che tiene la strada come nessuno, ma non per andare là dove vorrebbe.
Dalle Iene (evocate anche nei colori dei nomi Blanche e Bernie Rose) ai grandi arrabbiati del cinema Seventies, passando per i tragitti fottuti e nonsense di Abel Ferrara e le peregrinazioni musicali del primo Spike Jonze, Refn arriva al modello più nettamente percepibile: Michael Mann, nelle immagini riflesse, nella coreografia dell'azione, nel sottotesto esistenziale e nel passo doppio e sapiente di musica e immagini. Ma di Mann non condivide l'insopprimibile romanticismo, perché Drive rasenta il nichilismo ed è autenticamente pessimista: leva e mette la maschera da stunt questo pilota, ma in realtà non la toglie mai, come il suo antagonista Ron Perelman, ovvero l'Hellboy di Del Toro. Refn sa tutto questo, e ci gioca con sapienza esistenzialista e adrenalinica serietà, regalandoci alcune delle sequenze migliori dell'action degli ultimi anni: arriverà un'ultima, duplice coltellata, perché è il destino, ma il pilota ritroverà comunque la sua posizione nel mondo, la sua identità stessa. Al volante, ancora e sempre: la sua funzione è il nome, la macchina il posto di lavoro e insieme la cassa da morto.
Ma lo lasciamo lì, mentre la musica ci dice che è un eroe, con gli occhi eyes wide shut per un'ultima dichiarazione meta cinematografica: lui come il pilota Refn, che guida da Dio una macchina non sua. Speriamo, fino alla Palma.
In ogni caso, onore a Fremaux per l'inserimento in Concorso: tra tanti autori conclamati, un outsider di genere. Genere d'autore.